Traversata Contrin – San Nicolò

La traversata Alba di Canazei – Pozza di Fassa via Passo San Nicolò è un classico, o meglio… lo era quando ero giovane. Nell’epoca dei social, nella quale gli itinerari sono scelti in base alle foto su Instagram e sui consigli letti nei gruppi Facebook, le due valli, separatamente, sono inserite nelle categorie “escursioni facili per famiglie con bambini” e spesso snobbate da chi mira ad escursioni più corpose, per le quali viene privilegiato l’altro versante della val di Fassa. Invece le due valli possono essere considerate partenza o arrivo di traversate impegnative o giri potenzialmente “epici” e dai paesaggio mozzafiato. La traversata da Alba a Pozza non è difficile ma permette di apprezzare in pieno gli aspetti paesaggisticamente più rilevanti delle due valli, gettando uno sguardo verso le vette circostanti e… attraversando la storia geologica (e non solo) di queste valli.

Noi abbiamo deciso di affrontare il percorso da Alba, per motivi logistici e… “ortopedici”.

Percorso

Con l’autobus ci rechiamo ad Alba di Canazei e scendiamo alla stazione della funivia per Ciampac e Col dei Rossi. La partenza del sentiero è ai margini del bosco, praticamente sotto i cavi della funivia del Ciampac: guardando verso monte, sulla sinistra si trova il segnavia 602.

Si percorre la forestale per la Val Contrin, che inizialmente è pianeggiante ma ben presto svela la sua vera natura: una sequenza di rampe ripide e tornanti. Il “gradino” fra il fondovalle e Baita Locia Contrin, dove inizia la valle pensile, è di circa 250m. Fortunatamente un sentiero un po’ ripido permette di tagliare i tornanti, rendendo più varia la salita e, secondo il mio punto di vista, pure meno faticosa (preferisco di gran lunga un sentiero a una forestale, ma è questione di gusti). Lungo il sentiero è stato allestito un percorso tematico per bambini, con le storie della mucca Ombretta e del suo latte.

Raggiungiamo Baita Locia Contrin abbastanza rapidamente, qui la valle spiana e si procede spediti. Varcando un ampio cancello in legno si entra in un nuovo mondo: davanti noi la Cima di Ombretta, sulla sinistra le incombenti pareti calcaree del Gran Vernel, a destra la dolomia del Colac. In mezzo, una valle verdissima percorsa da un torrente dal greto ampio. Qui è stata recuperata una vecchia calchera, accanto alcuni escursionisti particolarmente creativi ha allestito un esercito di “ometti”, a cui l’esercito di terracotta fa un baffo 🙂 . Alle nostre spalle fa capolino il Gruppo del Sassolungo.

Più avanti, sulla destra, un paletto orfano di cartello indica dove era la partenza del sentiero per la Forcia Neigra, ora chiuso, che consentiva di raggiungere la conca del Ciampac (adesso bisogna passare dal Passo San Nicolò) . Sempre sulla sterrata, si raggiunge il ponte in legno sul Contrin: qui c’è la deviazione che porta direttamente al Passo, noi invece proseguiamo verso il Rifugio Contrin.

Passato il torrente, la strada alterna tratti dolci a strappi più ripidi. Si passa accanto a Baita Cianci, si prosegue ancora per superare le ultime rampe, finché sulla nostra sinistra appare il muro di sostegno del terrapieno su cui sorge il Contrin, con gli ombrelloni rossi (circa 1h50′ dall’inizio della salita, senza correre troppo). Ed è qui che inizia la parte più bella della valle: proprio dietro il rifugio parte il sentiero che porta alla Val Rosalia e al Passo di Ombretta, con la cima innevata della Marmolada che fa capolino dalla forcella. Da qui la maestosità della parete sud si intuisce appena, ma garantisco che trovarsi al cospetto di quei 900m di calcare fa impressione.

I prati dietro al rifugio, salendo verso il Passo di Ombretta, sono il regno delle marmotte. Se invece si prosegue sulla forestale, ad appena 10 minuti c’è la Malga Contrin, dove in passato abbiamo fatto scorta di jogurt fresco. Noi invece, dopo una breve pausa, ritorniamo accanto al rifugio e imbocchiamo il sentiero 608 in direzione Passo San Nicolò (tempo stimato un’ora).

Scendiamo fino al ponticello sul torrente, giunti sull’altra sponda ricominciamo a salire fra prati e sentieri ripidi, con le radici a costruire dei gradini naturali. Verso Est la vista si allarga verso le pareti di Marmolada e Gran Vernel. Guardando verso Nord, invece, balza all’occhio la forma ad U tipica delle valli di origine glaciale, che quasi abbraccia la sagoma del Sassolungo.

Saliamo ancora e usciamo sul pascolo, seguendo un sentiero che prima passa sul ghiaione ai piedi dei Laste de Contrin (da qui si vede anche Cima Uomo) e poi si inerpica in una zona solcata dai solchi di erosione causati dal ruscellamento dell’acqua piovana.

Ed è qui che, mentre ammiriamo il panorama che via via si apre, Ettore mi dice “ma quello che fa?”. Mi volto e vedo un tizio in e-mtb che sale lungo il sentiero. Ok, fin dove è arrivato ora si pedala (anche se sotto deve aver spinto un bel po’), ma già dove siamo noi è improponibile proseguire in sella. Incuriositi, lo lasciamo passare, augurandogli in bocca al lupo: lo avevamo sentito parlare con altri escursionisti, aveva intenzione di scendere in Val San Nicolò. Un po’ spingendo, un po’ sollevando il pesante arnese, procede piuttosto spedito, alla ricerca dei pochi tratti pedalabili. Quando raggiungiamo il tratto più dolce (e col fondo migliore) del sentiero, lui è già avanti.

Attorno a noi, lo spettacolo: ci troviamo su un terrazzino naturale, con il Gruppo del Sella che chiudere la vista verso Nord. Lo sguardo verso Est percorre le pareti del Gran Vernel e della Cima di Ombretta, con la sua conca che un tempo ospitava un nevaio, il tutto poggiante su strati di roccia di base caratterizzati da pieghe ben visibili, che si ripropongono anche lato Val San Nicolò, causando non pochi problemi. Percorriamo l’ultimo tratto di sentiero sostanzialmente pianeggiante che ci porta verso in rifugio, passando accanto accanto ad una mandria di vacche nere… svaccate a ruminare sul prato. Davanti a noi spuntano il Catinaccio, la Roda di Vael, il Latemar in lontananza, mentre ci avviciniamo al passo diventano riconoscibili le cime della Val San Nicolò.

Ed eccoci al rifugio! Sono forse 15 anni che non salgo quassù, ma l’edificio appare sostanzialmente uguale, con l’esterno in legno, le persiane rosse e bianche, la sala da pranzo spaziosa ma raccolta.

Ci sediamo sul prato per mangiare, quasi sulla cresta di sommità. Con lo sguardo verso valle, alla nostra sinistra abbiamo il “corno” del Col Ombert, nel quale sono visibili alcuni rifugi dalla Grande Guerra (altri sono presenti verso Buffaure e Colac, ma oggi non ci passiamo). In pratica, siamo su una specie di terrazza, lato Val San Nicolò il versante scende ripido, mentre verso Contrin sembra quasi un altopiano. Accanto a noi, c’è un signore con un cagnolino, poco in là vediamo il biker che si appresta a scendere. I tavoli esterni sono tutti occupati, mentre dentro al rifugio c’è poca gente. Potenza di settembre, della bella giornata e delle regole anti covid. Cafferino (che ci vuole sempre), bastoncini dimenticati appesi fuori dalla porta da andare a recuperare (questo era meglio evitarlo) e scendiamo.

Il sentiero percorre pianeggiante la cresta del valico, fino al segnale che indica il Passo. Qui si scende a sinistra.. Ops.. Ma non era qui il sentiero? Me lo ricordo bene: in sostanza la zona del passo si trova su un banco di roccia che lato San Nicolò tende a franare, il sentiero era stato ricavato lungo la parete rocciosa (qui da giovane avevo trovato dei fossili) e poi spostato e allargato. E’ però evidente che il sentiero non subisce manutenzione da un bel po’, il nuovo sentiero scende (già da un bel po’) lungo un costone relativamente stabile fra due zone franose e parte poco più avanti, lungo il sentiero che porta verso il Buffaure.

Cominciamo a scendere, su sentiero ripido ma ben tenuto, tutto sommato il biker che abbiamo incontrato durante la salita si sarà divertito! Raccogliendo qua e là qualche piccolo rifiuto o mascherina, raggiungiamo in breve tempo il bosco, mentre comincia a scendere qualche goccia. Il panorama sulla nostra destra è lunare: il versante destro della valle San Nicolò è costituito da ripidi pascoli sormontato a tratti da dolomia e roccia vulcanica, ma accanto a noi c’è un brullo canalone, roccia che pare sfogliarsi a cipolla lungo una piega degli strati di base, i cui frammenti precipitano a valle e vengono trascinati nelle piene. Spesso da queste parti si scatenano violenti temporali, il torrente può gonfiarsi rapidamente e innescare frane, con conseguenze anche drammatiche.

Nella parte bassa del percorso, un tratto del sentiero è franato, il passo si fa un po’ difficoltoso per superare radici, sassi, vuoti e dislivelli, sul morbido terreno scuro del sottobosco. Arriviamo poi a lato del torrente, sul fondovalle, il sentiero si innesta sulla sterrata poco sotto Baita alle Cascate. Percorriamo la strada in discesa, chiacchierando e guardandoci intorno. Io adoro questa valle, questi pascoli punteggiati da baite e fienili mi danno un senso di pace, ma quando vedo certe cose mi incazzo: santo cielo, se ti porti il cane a spasso e raccogli i suoi scarti organici sei persona educata, ma se poi infili il sacchetto in una tana di marmotta sei doppiamente coglione.

A proposito di senso di pace… Questi posti hanno visto cose che con la pace hanno ben poco a che fare: qui durante la grande guerra sorgeva un campo base dell’esercito austriaco. A ricordarlo ci sono cippi, lapidi, pannelli informativi… e alcuni reperti rinvenuti durante la ristrutturazione di una baita. La Val di Fassa era infatti territorio austriaco e il confine correva sulle cime vicine. La Val San Nicolò era il luogo ideale per alimentare la prima linea e i campi in quota, come quello che sorgeva ai piedi di Passo delle Selle. Su queste creste e nelle trincee di confine hanno trovato la morte tantissimi giovani strappati a famiglia e lavoro, o allo studio. Giovani parlanti mille lingue e dialetti, da una parte e dall’altra del confine, che la guerra l’hanno subita o nella quale hanno creduto prima di rendersi conto che essere mandati al macello sotto i colpi del nemico non ha nulla di romantico.

Ci fermiamo a Baita Ciampié per la merenda, per poi affrontare l’ultimo tratto asfaltato fino a Sauch, dove ora c’è la fermata della navetta.

Dati percorso

  • Lunghezza 15km 500m
  • Dislivello positivo 924m
  • Dislivello negativo 640m

Vedi il percorso su Strava

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Lago Aviolo e Passo Gallinera

Un weekend molto corto col figlio, in Val Camonica, alla scoperta della Val Paghera, del Lago Aviolo e del Passo Gallinera. Una bella escursione, peccato che il cielo coperto non ci abbia permesso di apprezzare in pieno il panorama.

Raggiungiamo Vezza d’Oglio il sabato prima di cena. Il padrone di casa (Martino, un tipo sportivo), ci recupera in piazza. Ci mettiamo a chiacchierare, parliamo di sentieri ed escursioni: la mia intenzione iniziale era quella di salire ai laghi d’Avio e, se possibile, al rifugio Garibaldi; lui ci consiglia di salire all’Aviolo perché, dal punto di vista paesaggistico, è meglio dei laghi d’Avio, inoltre la strada per la malga Caldea quest’anno non è in buone condizioni, mentre quella della Val Paghera è tutta asfaltata. Decidiamo di seguire il suo consiglio, rinviando la salita al Garibaldi alla prossima occasione, quando magari potrebbe venire anche il mio compagno. Valutiamo però l’ipotesi di non fermarci al lago, ma di proseguire oltre, fino al passo Gallinera (una delle opzioni che ci aveva prospettato Martino). Diciamo che salire la sera prima per fare una escursione di un paio d’ore non avrebbe molto senso…

La mattina io e Ettore, dopo la colazione al bar in piazza a Vezza, risaliamo in macchina la Val Paghera fino al Rifugio alle cascate. Lasciamo qui il macinino, ci prepariamo ed affrontiamo il percorso. Non riporto la descrizione nel dettaglio perché la si trova sul sito “Sentieri Camuni“, riporto solo alcune impressioni, oltre alle foto scattate nell’occasione.

Il primo tratto di sentiero, fino al lago, non è un sentiero. È una scalinata. No, non sto scherzando: sono gradini ricavati nella roccia, o spostando e sistemando massi. Qui ci salgono anche persone non giovanissime, o bambini con i genitori, ma non è un percorso agevole, soprattutto la discesa. Le mie ginocchia malandate hanno sofferto parecchio ma hanno retto, però ho visto parecchie persone patire parecchio in discesa. Qualcuna per difficoltà fisiche… Altre (e mi spiace sottolinearlo) a causa di una pessima scelta di scarpe.

Nella parte alta del percorso c’è un tratto di catena per tenersi. In condizioni normali è pressoché inutile, ma si tratta di un punto nel quale gocciola un po’ d’acqua dalle rocce sovrastanti e in caso di pioggia potrebbe essere scivoloso.

Più sopra sono presenti un paio di passerelle di legno e acciaio che consentono di “aggirare” alcune rocce, ma nulla di tecnicamente complicato o esposto.

Si giunge sulla spianata dove sorge il Rifugio Occhi, poco oltre si giunge al lago Aviolo: il cielo parzialmente nuvoloso non permette, purtroppo, di cogliere tutte le sfumature di verde dell’acqua di questo piccolo gioiellino, trattenuta da un basso sbarramento. Questo era uno dei luoghi delle gite estive di mia madre, che ha passato le sue estati da ragazza a Vezza d’Oglio, sentito molte volte nei suoi racconti: il lago, il Baitone… La val Paghera fatta al ritorno con in spalla il fratellino. E pure il Passo del Gallinera, verso il quale ci dirigiamo costeggiando il lago.

In questo punto della valle le pareti rocciose sono piuttosto ripide, sulla nostra sinistra sono state tracciate delle vie di arrampicata. Giunti al termine dell’invaso troviamo una piana erbosa, punteggiata da fiori che sembrano batuffoli di cotone, sulla quale pascolano alcune mucche. Ma come caspita sono salite fino qui?

La cosa che però ci colpisce è l’acqua del ruscello: limpidissima, al punto che si fatica a valutarne la profondità. Mossi da curiosità, facciamo una misurazione sperimentale usando uno dei miei bastoncini, in un punto nel quale la presenza di un grosso masso accelera la corrente: c’è circa mezzo metro d’acqua trasparente.

A chiudere la conca, troviamo il Corno del Baitone (Gruppo dell’Adamello), con quel che resta del suo ghiacciaio. Salendo il ripido sentiero sulla destra notiamo sfumature rosate sui nevai residui: depositi di sabbia del Sahara, portata qui dai venti, o un microorganismo che si sta diffondendo sulle Alpi, aumentando ulteriormente la velocità di scioglimento del ghiaccio? Già, perché sembra poca cosa, ma ghiaccio più scuro significa maggior assorbimento dei raggi solari.

La salita è piuttosto ripida, l’ambiente è selvaggio. Sulla nostra destra, Ettore scorge un camoscio in lontananza. La bestia ci fissa, poi si rimette tranquillamente in marcia, e mentre io recupero la reflex per tentare una foto con lo zoom, scompare dalla nostra vista.

Avvicinandoci al passo si alza un vento freddo e fastidioso. Raggiunta la sella si apre davanti a noi la vista verso la val Camonica: sotto di noi si scorge l’abitato di Malonno, più a destra c’è Edolo e da qui si vede bene la vallata che porta verso l’Aprica. Il sentiero che scende verso Edolo sembra bello ripido e il dislivello è notevole… Insomma, da queste parti le escursioni facili sono merce rarissima e le tempistiche di percorrenza indicate sulla cartellonistica non sono affatto generose.

Ci spostiamo sulla sinistra fino al Bivacco Festa, dove ci accampiamo per un veloce panino prima di scendere.

Dati percorso

  • Dislivello: +940m
  • Tempo salita: circa 2h45′ (anche qualcosa di più)
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Gran tour del Sassolungo in mtb

Il Gruppo del Sassolungo è uno dei gruppi montuosi che più amo: isolato da quelli vicini, è maledettamente scenografico e “fotogenico” e, pur avendo caratteristiche ben definite, ha un aspetto totalmente diverso se visto dalla bassa Val di Fassa, dal Sella, dalla Val Gardena o dall’Alpe di Siusi. Con intorno la Val Duron e i verdi pascoli dell’Alpe di Siusi, penso sia il sogno di molti bikers avventurarsi ai suoi piedi, ma mica tutti ne hanno per fare la Hero, magari il percorso lungo…

Ma, se si hanno fiato e gambe (o una E-MTB e la si sa condurre sul ripido) la circumnavigazione è possibile ed è di gran soddisfazione. Noi abbiamo testato 3 versioni diverse e sempre in senso antiorario. Volendo si può invertire il giro e (forse) incasinarsi ulteriormente la vita. Pronti a pedalare con noi?

La versione di Massimo

Qualche anno fa il mio compagno, alla ricerca di nuove emozioni, si è messo a studiare un itinerario per girare attorno al Sassolungo. In parte è già “tracciato”, visto che ci passa la Hero, si tratta di chiudere i pezzi mancanti. Ad un certo punto gli dico:

Ma scusa, perché per forza in senso orario? La salita lato Val Duron la conosci bene, prova a salire dall’altra parte!

Inverte il giro, lo prova e rientra entusiasta. C’è da dire che, pur non essendo un fenomeno, va (molto più di me) e si può permettere di fare salite rognosette. Vi riporto una descrizione sintetica dell’itinerario. Ovviamente ometto l’avvicinamento Pozza-Canazei (che figura però nei dati dell’itinerario sotto riportati) per concentrarmi sul tour vero e proprio.

Itinerario

Riporto in estrema sintesi il percorso seguito (la descrizione dei vari tratti è descritta nelle altre opzioni o in escursioni descritte in precedenza).

  • Da Campitello, seguendo il lungo Avisio in sponda sinistra si arriva a Canazei, ci si porta all’inizio del sentiero segnavia 655
  • Si risale la forestale fino a portarsi sulla state si raggiunge il Lupo Bianco
  • Su forestale (stesso segnavia) si raggiunge il Rifugio Valentini
  • Si segue un sentiero che porta sulla sterrata che passa a monte della Città dei Sassi (percorso Hero medio), fino al Rifugio Comici
  • In discesa (segnavia 526, deviare poi sul 528) ci si dirige verso Monte Pana, tenendosi sulla forestale dove il 528 si stacca da essa, ci si innesta su forestale segnavia 30
  • Si raggiunge Saltria, Tirler Alm e da qui Passo Duron
  • Si scende lungo la val Duron, si devia per Pian e si raggiunge Campitello

Dati percorso

  • Distanza: 54km 800m (compreso tratto da/per Pozza)
  • Lunghezza effettiva anello: 40km circa (Campitello – Campitello)
  • Dislivello: 1890m (D+/D-)

La versione di Barbara

Col moroso impegnato a fare il giro di cui sopra, anche a me viene una voglia matta di provare. Ma io non ho mai fatto la salita al Sella (e so che è tosta), però c’è una funivia che capita a fagiolo. Lato Gardena sono già pratica, mi manca l’ultimo pezzo di salita al Duron… E quindi… Ok ci provo.

Vado in bici fino a Campitello per prendere una delle prime corse per il Col Rodella e sfruttare la giornata. Non salivo qui da un bel pezzo, non lo ricordavo così bello il panorama, e con la luce del mattino, e poca gente in giro, è ancora più bello. Il Sella, la Marmolada… emozionante!

Inforco la bici e scendo verso il Salei e poi a Passo Sella. Dal piazzale di partenza della cabinovia per il rifugio Demetz so che dovrei seguire il sentiero 657 per raggiungere baita Michl, ma so anche che devo trovare il modo di passare a destra della baita pena finire su un sentiero fangoso, che è anche il “bagno pubblico” del bestiame. E niente, anche stavolta non becco la deviazione giusta e vado ad impantanarmi, sotto lo sguardo divertito del malgaro. Da qui seguo in discesa il percorso individuato per l’anello Selva – Passo Sella, deviando poi sull’adiacente bike park (percorso famiglia, molto carino). Raggiungo così Plan de Gralba.

Sbuco sulla statale e scendo in paese fino a Selva. In piazza Nives imbocco la strada che porta a La Sëlva, da qui raggiungo Saltria passando da Monte Pana, su percorso ampiamente collaudato: segnavia 308, Ciaslat, strada asfaltata per monte Pana, sterrato segnavia 30 che, dapprima in salita e poi con una lunga discesa, “aggira” il Sassolungo passando per boschi e ampi pascoli. Lungo queste strade mi imbatto per la prima volta nei segni lasciati da Vaia nel Gardenese: dalla valle principale sembra tutto a posto, invece il vento terribile di quella notte si è incanalato nelle valli che scendono dall’Alpe di Siusi e dal Sassolungo, radendo al suolo ampie porzioni di bosco.

A Saltria svolto a sinistra, su strada asfaltata (segnavia 6), per raggiungere Tirler Alm. L’asfalto finisce, si ignorano le deviazioni per incunearsi nel vallone che punta verso la cresta che fa da spartiacque con la Duron. Boschi e pascoli, tratti ripidi alternati ad altri più soft, tutto su ottimo fondo: si fatica ma fin qui nessun problema.

Il discorso cambia quando ad un bivio si svolta a sinistra. Qui si fa sul serio: il versante è ripido e lo si supera con rampe toste, tornanti, su fondo sterrato o con tratti rinforzati da autobloccanti, mentre la vista si apre ulteriormente su Sassopiatto e Odle. Nei pressi di una chiesetta ( se ho ben capito qui un tempo sorgeva l’albergo del Touring) si tira un attimo il fiato, prima di imboccare la rampa sulla sinistra: il passo è lì, ben visibile, manca poco… Peccato che la ruota slitti a pochi metri dal passo.

Eccomi qui, anche se è stata dura. La vista ripaga dalla fatica, soprattutto nell’ultimo tratto prima di Passo Duron, dove invece la vista risulta un po’ chiusa dal pendio erboso. Nel complesso, però, su questo lato la salita è più abbordabile rispetto al lato Val Duron: più continua ma con rampe un po’ meno ripide, soprattutto con un fondo decisamente più regolare.

Da qui inizia una lunga discesa, mentre la vista si apre sulla valle sottostante e verso Molignon e Marmolada. Trascurando la deviazione verso l’Alpe di Tires (ci ho provato una volta ed ho alzato bandiera bianca) si segue la mulattiera sconnessa, con molti sassi di grosse dimensioni. Il fondo diventa poi più regolare, ma a tratti si incontra parecchia ghiaia. La strada si snoda fra pascoli e ruscelli, fino ad una discesa molto ripida, con fondo in cemento (fino a qualche anno fa questo tratto era maledettamente sconnesso). Si scende in picchiata fino a Malga Ducoldaora, dove pascolano mucche e cavalli. E poi ancora giù, cercando di non incasinarsi nei tratti più ghiaiosi, fino alla spettacolare piana della val Duron.

Lasciar correre la bici, qui, è puro godimento, ed è più di una semplice ricompensa per la fatica fatta. È tutto bello in questa valle: il verde dei pascoli che fa contrasto con la scura roccia vulcanica formatasi durante eruzioni sottomarine, i torrenti, le marmotte sentinelle, i pelosissimi highlanders (razza bovina molto resistente alle intemperie). Schivando gli escursionisti, che qui si fanno più numerosi, si arriva in un piccolo angolo di paradiso : qui sorge la baita Lino Brach, un tempo un modesto casottino in legno e ora (i lavori erano cominciati 2 o 3 anni fa) ampliato e migliorato, ma il prato e le caratteristiche sculture in legno sono sempre lì, a sorvegliare la valle lato Marmolada e Denti di Terrarossa, a ricordare il vecchio gestore, morto lo scorso inverno.

Pausa pranzo e poi ancora giù fino al vicino Micheluzzi, da qui in picchiata fino alla baita Fraines (attenzione ai pedoni e alle navette!) per poi svoltare, poco sotto, verso sinistra. La bella forestale in falsopiano porta a Pian, caratteristico borgo ladino, da cui, su strada asfaltata, si torna a Campitello.

Dati percorso

  • Distanza: 35km 130m (Campitello-Campitello)
  • Dislivello positivo: 948m
  • Dislivello negativo: 1853m

Versione estesa in e-mtb

Questa estate lo abbiamo fatto anche noi.

Un po’ per necessità (ho rotto il cambio della bici scendendo dal Rifugio Firenze), un po’ per stare tutti insieme, un po’ per sentirci anche noi un po’ come Paez (Leonardo)… abbiamo noleggiato le E-MTB. E ci siamo tolti una gran bella soddisfazione!

Ma andiamo con ordine.

Ci rechiamo presso un noleggio bici in centro a Selva di Val Gardena. Il negoziante ci chiede dove vogliamo andare. “Passo Duron e rientro dal Sella” “… È tosta, voi siete abituati ad andare in bici, giusto?” Beh, si. Siamo vestiti di tutto punto, il figlio sfoggia la maglia Hero 2021, perché nel pacco gara del padre è erroneamente finita una M (ma quanto cavolo sono strette ste magliette?). Noi adulti, bene o male, andiamo. Vediamo come se la cava il dodicenne, che sul medio facile già mi semina, ma a gestire il cambio è un po’ un disastro.

Descrizione dell’itinerario

Preso possesso dei mezzi, del caricabatterie di emergenza (metti che decidiamo di allungare il giro…) e ricevute le istruzioni base, ci avviamo verso Piazza Nives, dove svoltiamo verso la Selva. Invece di proseguire verso i Ciaslat e Monte Pana, in cima alla salita asfaltata, svoltiamo a sinistra: in pratica, percorriamo al contrario l’ultimo tratto della Hero. Cercando di sfruttare il meno possibile la batteria, saliamo nel bosco, intercettiamo il segnavia 22, che seguiamo in salita, prendiamo una deviazione sulla destra, tagliando la pista Saslonc. Seguiamo per un tratto il segnavia n°23, passiamo il torrente e intercettiamo una forestale inizialmente contrassegnata dal n°528, passando a monte… di Monte Pana, immettendoci poi sulla forestale contrassegnata dal segnavia n°30. La giornata è spettacolare, cielo blu e poche nuvole, pascoli verdi e vette con ancora molta neve per essere metà giugno. Il bosco, pur se ripulito, mostra le ferite di Vaia, chissà quanti anni ci vorranno per rigenerare ciò che è andato perso.

Da Saltria in poi seguiamo esattamente il tragitto che ho seguito un paio di anni fa. Beh, con l’aiutino è decisamente tutta un’altra cosa. C’è persino il tempo per guardarsi intorno, anche sulle rampe più cattive! Cercando di non esagerare con la spinta extra, faccio quasi fatica a star dietro agli altri due, che salgono spediti.

Una volta svalicato, iniziano le raccomandazioni al giovane, che è un po’ spaventato dal fondo non proprio fenomenale delle prime discese. Scendiamo con prudenza, nonostante una piccola caduta Ettore se la cava egregiamente. Scendiamo veloci fino alla rinnovata Baita Lino Brach, dove ci fermiamo per pranzare, anche se non è ancora mezzogiorno. L’attesa è allietata da due giovani che suonano chitarra e flauto, un repertorio variegato che comprende anche “Libertango” di Astor Piazzolla, che io adoro.

Risaliamo in bici, passiamo il Micheluzzi, Baita Fraines… E ci troviamo la strada per Pian chiusa. L’ordinanza parla di lavori stradali che si protrarranno per tutta l’estate. Ecco perché la Hero questa estate è passata più sotto!!! Mentalmente impreco perché so cosa ci aspetta, e quel “cosa” non ho molta voglia di farlo in bici, e di farlo fare al figlio. Ma ci tocca, quindi…

“Ettore, scendi piano. Rallenta. Cavolo vuoi andare più piano che c’è una brutta discesa?!?!”

Arrivati alla “brutta discesa”, ci fermiamo entrambi (mentre Massimo prosegue). “Occazzo”. Ecco, appunto. La rampa che porta al ponticello sul torrente, poco prima di sbucare in paese, è tremenda. Stando ai tracciati Strava di chi ha fatto la Hero lunga siamo fra il 36% e il 40%. Per quello che ricordo, ha sempre avuto un ottimo fondo, ma il ghiaietto può renderla scivolosa, al punto che erano state legate delle corde al parapetto per agevolare i pedoni. La strada è stata migliorata grazie ad una gettata di cemento. La pendenza però è la stessa, e a fine discesa c’è una curva secca a sinistra e poi il passaggio sul ponte (un “drittone ” qui si paga caro). Io ed Ettore la facciamo a piedi, mentre Massimo, che ci ha preso gusto, sale per fare il bis.

Arrivati a Campitello, ci portiamo in sinistra Avisio e risaliamo la valle fino a Canazei, proseguiamo fino a sbucare sulla statale. Svoltiamo a sinistra e scendiamo fino alla rotonda, svoltiamo verso Passo Sella e, al primo tornante, svoltiamo a sinistra.

Ci portiamo lungo il torrente che scende dal Lupo Bianco, alla ricerca della forestale contrassegnata col n°655. Risaliamo così lungo la “pista di rientro”, caratterizzata da ottimo fondo, pendenze non impossibili ( è comunque una pista da sci…) con alcuni strappi più impegnativi. La Val de Antermont è stretta, ma davanti a noi fa capolino il Piz Ciavazes.

La strada passa sull’altro versante della valle, con una ripida rampa raggiungiamo la statale. La percorriamo fino al Lupo Bianco, anche se volendo potremmo tagliare su sterrato, scendiamo sul piazzale sulla sinistra alla ricerca del segnavia 655. La forestale sale con rampe che si fanno più cattive mentre il panorama attorno a noi diventa sempre più maestoso, con le pareti del Gruppo del Sella che sembrano quasi avvolgerci. L’indicatore della batteria scende, nonostante le opportune attenzioni e il livello di spinta non elevato (scoprirò all’arrivo che la mia bici ha una batteria meno performante rispetto alle altre due), quindi salgo con calma, mentre il figlio prende il largo. Mando suo padre all’inseguimento, impresa che si rivela più difficile del previsto. Il ragazzo ne ha, santo cielo, e sta onorando la maglia!

Raggiungiamo così un prato costellato di fiori di armentara, un balcone naturale affacciato sulla val di Fassa, vista Marmolada e Ciampac, il Sella dietro e a sinistra: uno spettacolo! È un gioiellino nascosto… in bella vista: è lì sopra, ma non ci passi per caso, devi scegliere di passare di qui, di salire al Sella in bici o a piedi, ed è una cosa che raramente si fa.

Proseguiamo ancora, puntando verso il Rifugio Valentini. Abbiamo ancora circa 250m di dislivello da superare. L’ultimo tratto è ripido e sconnesso, riusciamo ad arrivare poco sotto al rifugio, poi io ed Ettore dobbiamo mettere giù il piedino. Il Sassolungo si staglia davanti a noi, maestoso. Svalicando lo sguardo si apre verso le vette della Val Gardena.

Scendiamo a passo Sella, stavolta riusciamo ad evitare il sentiero che porta a Baita Michl, portandoci, superando un torrentello e un po’di neve, sulla pista da sci. Scendiamo e ci riportiamo sul percorso n°657, che percorre forestali a servizio delle piste da sci, alcuni tratti sono ben tenuti, altri (soprattutto quelli più ripidi) sono caratterizzati dalla presenza di molti sassi. Non mancano nemmeno i tratti su pista, in picchiata sul prato facendo lo slalom fra residue chiazze di neve. Raggiungiamo Plan de Gralba e la statale, a Plan deviamo sulla ciclabile e raggiungiamo la piazza.

Il tempo di fare merenda e ci rechiamo in negozio per restituire le bici. Piccolo bilancio :

  • Non abbiamo usato i caricabatterie
  • Io ho restituito la bici con una tacca di batteria (l’ultimo tratto di salita del Sella l’ho fatto col terrore di dover spingere l’arnese in salita)
  • I due maschietti, che avevano un mezzo più performante, l’hanno restituito con due tacche.

Il negoziante “ah beh, allora avete pedalato!”. Si, abbiamo pedalato. Un po’ di fatica l’abbiamo fatta, e ci siamo divertiti un sacco.

Dati tracciato

  • Lunghezza: 45km 800m
  • Dislivello positivo: 1754m
  • Dislivello negativo: 1754m
  • Tempo in movimento: 4h20′
  • Tempo comllessivo: 6h35′
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Bivacco Valerio Festa da Vezza d’Oglio

Questo itinerario l’ho fatto il 18 luglio di quest’anno con mio figlio Ettore.

Il posto merita, senza dubbio… Noi però non siamo stati molto fortunati perché di sole ne abbiamo visto poco e al passo tirava un vento freddo e fastidioso.

Qualcosina da raccontare però ce l’abbiamo lo stesso… qui potete trovare la descrizione dal blog “Sentieri Camuni”, successivamente vi racconterò qualcosa della nostra esperienza.

Buona montagna!

SENTIERI CAMUNI

Come arrivarci

Alla partenza

Prendiamo la SS 42 in direzione di Vezza d’Oglio e, da via Nazionale, imbocchiamo via Stella (sulla destra per chi viene da Edolo), seguendo le indicazioni per “Val Paghera-rifugio Aviolo”. Superato il ponte Stella, proseguiamo dritto e, in leggera salita, oltrepassiamo la piccola chiesetta gialla dedicata a Sant’Anna. Dopo un tornante e alcune curve attraversiamo il Ponte Scalvino e proseguiamo fino a raggiungere il rifugio “Alla Cascata” a 1453 m.s.l.m.
Possiamo lasciare l’auto poco prima del rifugio, nei due slarghi sulla destra, oppure proseguire a destra oltre l’edificio, raggiungendo un ampio parcheggio poco oltre: quest’ultimo è a pagamento, 3 euro giornalieri per i fine settimana di luglio e ogni giorno dal 25 luglio al 30 agosto.

Il sentiero

Dal parcheggio alto imbocchiamo il sentierino, che entra subito nel bosco, dove si fa strada tra le radici degli abeti, per poi uscire dagli alberi e continuare su…

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Son tutti Paez con la MTB elettrica!

L’aspetto paradossale dell’enorme diffusione delle MTB a pedalata assistita è che quei “pochi” rimasti a pestare sui pedali, anche se mezze calzette al limite della velocità di stallo come la sottoscritta, sono visti come alieni o supereroi, soprattutto se ti incrociano le famigliole: sguardi ammirati, qualche complimento… mentre in realtà tu stai stramaledicendo il pessimo stato di allenamento!

O forse ti danno solo del pirla? Già… Perché faticare tanto? Perché rifuggire dai sentieri ormai prelazionati dalla pedalata assistita per cercare altro? Giuro: un paio di anni fa sui percorsi “standard” (ero in Val di Fassa) trovavo solo le elettriche, mentre la massima concentrazione di muscolari l’ho beccata sulla via del Rifugio Alpe di Tires… cioè, prima devi farti passo Duron (e il nome dice tutto) e poi infognarti su una cosa dove anche gente forte posa il piedino…

Andare in giro in mtb sarà anche faticoso… Ma è bellissimo! Vuoi mettere la soddisfazione? Ma perché non provarle entrambe? Diciamo che E-MTB e MTB sono due cose in un certo senso complementari e a… “geometria variabile”. È pur vero che le assistite danno la possibilità di andare in montagna anche a chi collassa su un cavalcavia oppure non ha più il fisico (o non ce l’ha ancora), ma a chi in bici ci va, aprono un mondo nuovo, ampliano orizzonte e raggio d’azione. Oltretutto si può anche decidere l’entità dell’aiutino… Mica è un motorino!

In tempo di “estremismi” e di individualismo sfrenato la diffusione delle E-MTB non è però indolore: già prima non è che i rapporti fra bikers ed escursionisti fossero sempre idilliaci. Diciamolo: per molti escursionisti, i ciclisti sui sentieri erano degli invasori, rei di invadere lo spazio vitale dei pedoni e di causare pericolo. Adesso è peggio, perché c’è pure la componente “loro non fanno fatica” 🙄.

Giusto qualche giorno fa mi sono imbattuta in una conversazione a dir poco surreale, e che mi ha fatto parecchio incazzare: le bici sui sentieri sono pericolose, è una invasione, sarebbero da vietare. A parte che se ti lamenti per la presenza di biciclette lungo itinerari a tal scopo segnalati dall’APT vuol dire che sei poco informato sul posto dove sei, ma estendere un eventuale comportamento scorretto di un singolo all’intera categoria è una cosa di una stupidità galattica. Un po’ come se io dicessi che tutti i proprietari di cani sono cretini perché in montagna ne ho incontrati alcuni non in grado di gestire la bestiola, o che affidavano arnesi da 50kg a bimbe che ne pesavano 30. O che tutti gli escursionisti sono incoscienti perché c’è chi gira senza una mappa e manco sa dove si trova, vuole portare bambini di 4 anni a fare il giro dell’Antermoja, o porta la prole sull’altopiano delle Pale con scarponi senza calzini, perché quella mattina facevano i capricci e non li volevano indossare (vita vissuta… ) .

Un po’ di tolleranza, santo cielo! C’è troppa gente che pensa che l’unico modo GIUSTO per andare in giro sia il suo e che gli altri abbiano torto a prescindere, quando basterebbe che TUTTI rispettassimo poche semplici regole, con il rispetto degli altri come prima cosa, invece di sfogare le proprie frustrazioni sui social. Sarà pur vero che son tutti Paez con la mtb elettrica, ma i principianti li si trova su percorsi più facili e generalmente con carreggiata abbastanza larga, quindi dove c’è posto per tutti. Chi si avventura su itinerari più tosti di solito la bici la sa portare, che si tratti di bici con o senza aiutino poco cambia, e questo senza arrivare agli estremi Juri Ragnoli, che lo scorso anno ha fatto il giro della Marmolada via Passo Ombretta, fra lo stupore di chi lo ha incrociato sul percorso, e (forse) le imprecazioni di chi se lo è visto sfrecciare accanto in discesa!!!

In attesa che arrivasse Paez (quello vero, che si allenava con ripetute sul Dantercepies), nei giorni scorsi in Val Gardena i bikers erano tutti “assistiti”, tanti Paez di tutti i giorni che ti sfrecciavano accanto superando baldanzosi brevi strappi. I drogati della muscolare sono arrivati ad affollare i sentieri soltanto tre giorni prima della #Herodolomites, per poi tornarsene quasi tutti a casa.

Noi siamo rimasti, in mezzo a escursioni e uscite in mtb stavolta (spoiler) abbiamo noleggiato le E-MTB per fare, una volta tanto, un giro tutti insieme. E che giro! Ma di questo parleremo in una prossima puntata… 😁

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Anello Col Raiser – Seceda

Una splendida giornata di sole, da non sprecare in nessun modo. Ne salta fuori un regalo di promozione per il mio giovane padawan: una escursione al Seceda, da cui si può ammirare uno splendido panorama a 360° su Dolomiti, Adamello, montagne austriache. Merita, anche per chi cammina poco (e prende la scorciatoia).

Mappa dell’area, sono evidenziati i principali punti di passaggio

Il giorno della pubblicazione dei tabelloni avevamo in programma la sperimentazione della E-MTB, ma il senior di casa stava poco bene, quindi decidiamo al volo di riconvertire la splendida giornata in chiave escursionistica. Il giovane però sembra riluttante a mettersi in moto…

E niente, prima vuol vedere la pagella.

Solo dopo aver scorso soddisfatto i voti sul computer e aver constatato “di pirsona, pirsonalmente” di essere stato promosso in seconda media, ci prepariamo ed usciamo. Destinazione: Seceda.

Ci dirigiamo a piedi verso Santa Cristina, percorrendo Streda de la Tieja e poi seguendo i cartelli per la stazione di valle della cabinovia Col Raiser.

L’itinerario

Le navicelle dell’impianto percorrono lente la valle a monte di Santa Cristina, sede del comprensorio sciistico Col Raiser-Seceda. La valle, con esposizione Sud, all’altezza di Pian de La Tieja, è piuttosto stretta, ma risalendo sopra pascoli e baite, si apre a ventaglio: verde e bellissima dai prati di Seceda a Col Raiser, più ad Est diventa un pochino più selvaggia arrivando al corso del torrente principale e alla zona del rifugio Firenze. Dietro, a far da cornice, le Odle, mentre guardando verso Est si erge imponente lo Stevia, con ancora parecchia neve nei canaloni che scendono a valle.

La conformazione dei versanti, che rende particolarmente “fotogeniche” queste vette, ha una origine prettamente geologica: gli strati di base, un tempo fondali marini su cui sono nati gli atolli corallini che hanno originato le dolomiti, sono inclinati verso sud e l’erosione ha fatto il resto: pascoli ondulati verso Gardena, che sul Seceda sembrano portare direttamente verso il cielo, ripide pareti tendenti a sgretolarsi verso Nord, dove c’è la Val di Funes. Il banco di dolomia dello Stevia, che si erge massiccio a chiudere la quinta verso oriente, è in sostanza una specie di altopiano i cui bordi settentrionali e occidentali si sgretolando, rendendolo accessibile agli escursionisti. E poi ci sono i “denti” delle Odle, che, pur dando il meglio lato Funes, anche verso Gardena svettano verso il cielo blu, in un certo senso materializzano i colori della bandiera ladina.

Sbarchiamo a Col Raiser, in un posto che è contemporaneamente stazione cabinovia, negozio per turisti, punto di ristoro con terrazza panoramica e hotel. È punto nevralgico per la pratica degli sport invernali, ma anche per le escursioni. Nel nostro caso, si tratta di un percorso ad anello da percorrere in senso orario, che ci porta al Seceda e da qui a camminare ai piedi della Fermeda fino a Malga Pieralongia, già meta di una escursione alcuni anni orsono, per poi far rientro a Col Raiser.

Ci avviamo lungo una forestale che, mantenendosi in quota, si dirige verso Nord. Ignoriamo le deviazioni per il Rifugio Firenze (segnavia n°2) e per Malga Pieralongia (4a), il nostro itinerario di salita prevede un primo tratto sul sentiero n°2, per poi svoltare a destra, poco prima del Rifugio Fermeda, sul n°1A, il passaggio per Baita Daniel. Successivamente, dovremo svoltare ancora a destra sul n°6, seguendo le indicazioni per Baita Sofie e Seceda.

La pacchia del sentiero in piano non dura molto, in fondo i punti citati sono lungo piste da sci, e ben sappiamo come sono le sterrate di servizio: ripide e con tratti pavimentati per non far slittare le ruote della jeep. Avranno pur effetto tonificante sui glutei, ma spaccano un pochino le gambe. Questo è l’unico difetto, perché il paesaggio è idilliaco: è un susseguirsi di pascoli, baite, laghetti, minuscole chiesette, sotto un cielo blu e terso. Il tutto, con una splendida vista che spazia dal Sella all’alpe di Siusi e, in mezzo, Il Sassolungo, il Catinaccio, il Molignon e i Denti di Terrarossa.

Dato che siamo partiti tardi, ci stiamo avvicinando all’ora di pranzo. Il tabellone a Col Raiser diceva che il Rifugio Seceda è chiuso, ma poco sotto c’è il Sofie. Lì ci fermiamo, un po’ accaldati. Il posto sembra un po’ fighetto ma ci sediamo (quello c’è, e la vista è incantevole). L’arrivo del menù si rivela però un tuffo al cuore e un attentato al portafoglio, si viaggia sulla soglia dei 20€ per un primo o per la polenta. E anche il tagliere di speck non scherza.

Dopo un attimo di smarrimento, ci consultiamo e decidiamo di prendere il tagliere doppio, con affettati formaggio e patate. Ecco, ci arriva una cosa apparentemente “innocua” se divisa in due e che invece porta quel pozzo senza fondo di mio figlio ad alzare bandiera bianca. Anche perché il tagliere ha un bell’aspetto, ma solo in un secondo momento mi accorgo delle patate nella terrina a parte. Due a testa, quelle rosse trentine, lessate, su cui mettere il burro. Tutto buonissimo, direi, per un prezzo onesto.

Ripartiamo e percorriamo l’ultimo tratto di sentiero che ci porta alla stazione di monte dell’impianto che da Ortisei porta al Seceda. Da qui, 10 minuti su uno sterrato un po’ sconnesso e si arriva al belvedere. Ecco, a costo di farla strisciando, anche chi non cammina e sale in funivia deve arrivare fino qui. Il paesaggio dalla cima è qualcosa di impagabile. Il nastro in acciaio corten posizionato attorno ad una piazzola riporta stilizzato il profilo delle montagne e il nome delle vette: Ferméda, Sass Rigais e poi, tutto attorno, Stevia, Sella, Sassolungo, Sciliar e, più lontano, il Gruppo dell’Adamello, il Brennero, le Alpi Austriache… Sotto di noi, verso nord, ci appare la verdissima val di Funes. Il tutto praticamente senza una nuvola.

Si, cioè, quasi… Sopra alle Pale di San Martino, che si scorgono in lontananza, si sono date appuntamento le poche nuvole presenti.

A disturbare la quiete della vetta, il fastidioso ronzio di un drone, che riusciamo ad individuare con parecchia fatica…e che ci accompagna anche per un tratto della discesa. Pure qui la privacy va a farsi benedire…

Scendiamo dalla vetta per imboccare, all’altezza del Rifugio Seceda, il sentiero n°1, che scende dolcemente sul parato, puntando verso Est, per poi farsi un po’ più ripido. Qui sono stati posati elementi in cemento per preservare il fondo, ma, notoriamente, l’acqua se non ha un passaggio se lo crea, quindi ai lati del sentiero si è scavata dei solchi, che in alcuni punti hanno causato lo spostamento e la rottura degli elementi di pavimentazione. Dopo il bivio per Baita Toier, il sentiero cambia denominazione (segnavia n°2) e scende ancora, passando ai piedi delle guglie delle Odle, aggira uno sperone erboso per giungere a Baita Pieralongia, ai piedi della Fermeda di Sotto. Questo posto Ettore se lo ricorda bene: quando siamo stati qui la prima volta tirava un vento allucinante, inoltre, preso dai morsi della fame, ha assaggiato lo speck per la prima volta, ed è scoppiato l’amore…

Imbocchiamo lo sterrato 4A, che, attraversando pascoli verdi, ci porta verso sud, ad intercettare la strada percorsa la mattina. Da qui, mantenendoci in quota, torniamo a Col Raiser.

Ammiriamo ancora qualche minuto il panorama, prima di riprendere la cabinovia per tornare a valle.

Dati escursione

  • Distanza: 8km 700m (partenza e arrivo a Col Raiser)
  • Dislivello: 410m
  • Tempo in movimento: 2h 45′

Puoi trovare il tracciato sul mio profilo Strava

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Lecco Ama La Montagna

SABATO 10 LUGLIO E DOMENICA 11 LUGLIO, LA MONTAGNA PER TUTTI. RAGGIUNGIBILE DA TUTTI.

Un weekend per conoscere la montagna lungo il sentiero Rotary a Lecco, un percorso facile, sicuro e adatto a tutti.

Dallo sport outdoor alla degustazione di piatti tipici, dai laboratori didattici alla giocoleria, dallo yoga all’alba ammirando lo splendido panorama del lago di Como e della valle dell’Adda ad uno stage di corsa fra faggi e abeti.

Il video di presentazione dell’iniziativa.

Per sapere di più: https://leccoamalamontagna.it/

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Pellegrinaggio laico alla diga del Gleno

Eventi disastrosi più o meno recenti, come la frana del Vajont o il crollo della diga di Stava, sono ancora vivi nella memoria, perché ne abbiamo ricordo diretto o per l’impatto che hanno avuto su intere comunità o sulla nazione intera. Per quanto riguarda il Vajont, a riprendere ed analizzare la tragedia ci ha pensato Marco Paolini col suo monologo. Sono eventi che vengono portati ad esempio a futuri ingegneri e geologi, ma purtroppo non sono stati gli unici nella storia d’Italia: molti di essi sono custoditi nella memoria delle comunità che li hanno vissuti sopra la propria pelle ma poco noti altrove, e vanno ricordati per rispetto delle vittime, della verità e anche come monito affinché certi errori non vengano più ripetuti.

Domenica siamo stati alla diga del Gleno, la cui storia era stata sintetizzata in un post di qualche anno fa e al quale rimando per dettagli e approfondimenti. L’escursione da noi fatta è ad anello e non impegnativa.

Le rovine della diga del Gleno possono essere raggiunte seguendo itinerari diversi, ma i più battuti e semplici partono da Vilminore di Scalve e, diversamente combinati, consentono di compiere percorsi ad anello o con deviazioni in località caratteristiche dell’area. L’itinerario più breve in assoluto parte da Pianezza, che in periodo turistico è raggiungibile da Vilminore con bus navetta. Noi scegliamo di salire partendo da Vilminore, tenendoci in sinistra idrografica della valle del Gleno, e di tornare dal lato opposto.

Il percorso

Parcheggiamo all’inizio del paese, dove c’è l’area attrezzata per la sosta dei camper, e ci avviamo verso il centro del paese. Siamo nella via che transita davanti alla chiesa, alla ricerca del percorso che consente di arrivare a Pianezza tagliando i tornanti della strada asfaltata, quando una signora con cagnolino al guinzaglio ci spiega che il percorso è segnalato da formelle quadrate. Impossibile sbagliarsi, anche per chi, come noi, è in giro senza cartina e si sta basando su descrizioni sommarie prese da internet e sulla app (cosa che detesto, ma per stavolta va bene così).

Ci inerpichiamo così lungo ripide stradine, fra case in pietra, torrentelli incanalati e giardini fioriti, fino ad imboccare un viottolo che porta al l’immancabile Via Crucis (ogni paese di montagna ne ha una😁). Percorriamo un tratto di strada, tagliamo nuovamente fra boschi e capre al pascolo e, seguendo i segnali, arriviamo nell’abitato di Pianezza.

È un paesino grazioso e ordinato, proseguiamo e seguiamo una mulattiera a tratti ripida che raggiunge alcuni casolari, per proseguire poi su una mulattiera con fondo molto irregolare, anche a causa dell’azione dell’acqua. Le deviazioni sono ben segnalate dai cartelli metallici riportanti numerazione CAI e tempi di percorrenza, dalle formelle o da più rustici segnali marcati col pennello (il segnavia da seguire è il 411).

Si sale rapidamente, passando accanto alle condotta forzata, fino ad incrociare, in corrispondenza di un manufatto in cemento, una mulattiera pianeggiante (siamo a circa 1500m slm). Qui svoltiamo a sinistra e ci manteniamo in quota, lungo un percorso in parte scavato nella roccia. Il tempo di spiegare a mio figlio la versione breve della storia della diga, con aggiunta di spiegazioni circa le tipologie di dighe e il ruolo dell’acqua nella loro stabilità, e davanti a noi, contro i pascoli verdi, si stagliano le rovine della struttura.

Sembra quasi di passare attraverso un portale, che quasi novanta anni fa ha segnato il passaggio fra la natura piegata alle esigenze dell’uomo e il suo tendere a riprendersi inesorabilmente i suoi spazi, se non si rispettano i suoi equilibri, se per incapacità o sete di denaro non si presta la dovuta attenzione alle “regole del gioco”. L’acqua segue le sue regole, non quelle dell’uomo, e se trova spazio ci si infila, anche se questo significa portarsi via un pezzo di diga e qualche centinaio di vite innocenti. A testimoniare tutto ciò ci sono i (pochi) ferri di armatura che un tempo collegavano le arcate portate via agli speroni superstiti, le strutture del coronamento danneggiate, le riprese di getto che tempo, agenti atmosferici e vegetazione stanno man mano allargando. E le due bastionate rimanenti della diga, che sembrano quasi un fondale per un palcoscenico.

L’invaso esistente, trattenuto da un basso sbarramento, è poca cosa rispetto a quanto era previsto in progetto. Rimangono però vasti prati, terreno privilegiato per escursioni in famiglia, bivacchi per gruppi di amici e pascolo ambito per un gregge di capre, che pasteggia fregandosene beatamente degli escursionisti sdraiati al sole.

Il tempo di uno spuntino e di una passeggiata lungo la sponda del laghetto e ci rimettiamo in moto, risalendo il pendio per aggirare la diga sul lato destro della valle e ridiscendendo poi nel bel sentiero nel bosco (segnavia 410), passando accanto a torrette di avvistamento animali, seguendo le indicazioni per Bueggio fino al ponte sul torrente. Qui si attraversa e ci si trova in un’area sosta con un’installazione a memoria della storia dei luoghi. Percorrendo una forestale, passando ad un enorme formicaio (con tanto di pannello esplicativo su vita e abitudini delle ospiti) e ad alcune abitazioni private, si giunge sulla strada che collega Vilminore a Colere. Ancora qualche minuto e arriviamo in centro.

La sosta gelato è d’obbligo.

Dati escursione

Il tracciato è disponibile sul mio profilo Strava

  • Lunghezza : 11km 700m circa
  • Dislivello positivo: 630m
  • Tempo in movimento: 3h 30′
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Da Selva al Rifugio Firenze

Il rifugio Firenze (Utìa de Ncisles in Ladino) è ubicato ai piedi delle Odle, lato Val Gardena. È facilmente raggiungibile a piedi da Selva o da Santa Cristina ed è, insieme alla stazione di monte della cabinovia Col Raiser, un importante snodo per le escursioni nel Parco Puez-Odle. È un’ottima meta anche per escursioni in mtb. Questa estate l’ho raggiunto in entrambi i modi, di seguito riporto la descrizione dei tragitti seguiti e delle possibili varianti.

A piedi via Daunei – Juac

In realtà la decisione di andare al Rifugio Firenze è stata un ripiego, in un periodo caratterizzato da condizioni meteo poco stabili: l’opzione A era la salita al rifugio Stevia, ma la mattina, al risveglio, troppe nuvole gironzolavano attorno alla vetta e ci attanagliava il dubbio che le previsioni meteo avessero toppato sull’orario di arrivo della pioggia. Dopo un rapido consulto con Ettore (quasi dodicenne compagno di avventure, nonché mio figlio), cartina alla mano ci orientiamo su qualcosa di più tranquillo, con meno dislivello e (presumibilmente) in buona parte nel bosco. Ci prepariamo e usciamo.

Descrizione

Ci avviamo lungo la ripida strada asfaltata che porta all’abitato di Daunëi, località situata circa 150 più in alto rispetto al centro di Selva, in posizione soleggiata, tranquilla e decisamente panoramica. Si prosegue oltre le ultime case, verso il parcheggio a pagamento (qualche tornante può essere evitato prendendo un sentiero opportunamente segnalato) e ancora oltre, fino all’ingresso nel Parco Puez-Odle.

Da qui si imbocca la mulattiera contrassegnata con il n°3, che, alternando tratti tranquilli ad altri più ripidi, attraversa un bosco di conifere, lungo il quale sono state posizionate alcune sculture in legno rappresentanti strumenti di lavoro (…una enorme motosega) e animali tipici della zona, come camosci e cutrettole. Sculture analoghe sono presenti lungo altri sentieri all’ingresso del parco.

Si giunge così al rifugio Juac, situato a 1909m slm su una balconata naturale affacciata sulla valle, con vista Sassolungo. Nei pressi del rifugio è installata una enorme meridiana, che proietta l’ombra sul prato, con le ore materializzate da massi bianchi. Si segue la traccia sulla destra del rifugio, su un prato che sembra una spugna e su cui, nonostante ciò, il gestore ha avuto l’ardire di posizionare una porta da calcio. Si percorre una passerella in legno che scavalca una risorgiva, si prosegue poi prevalentemente in discesa fino ad incrociare la forestale contrassegnata dal n°1, in corrispondenza di un laghetto.

Si prosegue oltre, verso nord, seguendo i segnavia 1 e 3. La mulattiera, che presenta un fondo abbastanza regolare, passa ai piedi dello Stevia puntando verso le Odle, mentre sulla destra si vedono gli impianti a servizio del comprensorio sciistico di Col Raiser-Seceda.

La sagoma del rifugio spunta sulla nostra destra: lo raggiungiamo grazie ad un’ultima rampa su fondo piuttosto ghiaioso e, con un paio di tornanti, ci troviamo davanti alla struttura.

Ci fermiamo per un breve spuntino, con un occhio al cielo perché la situazione non ci convince più di tanto… E per fortuna che, essendo a inizio stagione, ci siamo portati i viveri perché la volpe (io) si è dimenticata soldi, bancomat, documenti… Solo i 2€ trovati in una tasca dello zaino mi consentono di prendere un caffè.

Non ci fidiamo e ci apprestiamo a rientrare alla base, mentre al rifugio arrivano alcuni bikers… col “trucco”. Già, perché in periodo di #herodolomites… son tutti Paez con la mtb elettrica! L’unico ad avventurarsi lì con la muscolare lo incontriamo proprio sulla rampa sotto al rifugio. Torniamo a casa lungo lo stesso itinerario seguito all’andata.

Dati escursione

  • Distanza complessiva: 10km 760m
  • Dislivello positivo: 554m
  • Tempo impiegato: 3h55′
  • Tempo in movimento: 2h52′

Link a percorso su Strava

In mtb da Santa Cristina (con imprevisto)

Premetto che sulla mappa in mio possesso (se non erro acquistata presso “Dolomiti Adventure”) il Rifugio Firenze non è inserito in alcun itinerario, ad eccezione di uno classificato come difficile (discesa dal Seceda, raggiungibile da Ortisei con gli impianti di risalita). Sul sito valgardena.it è invece descritto l’itinerario ad anello n° 298 “Regensburger Hütte Runde”, ovvero “Tour del Rifugio Firenze”, anch’esso classificato difficile, ma all’atto della pianificazione del tour non lo sapevo… Peccato perché questo itinerario avrebbe fatto al caso mio: prevede di prendere quota dirigendosi verso la Vallunga per imboccare, poco dopo “la Ciajota”, la mulattiera identificata col n°26, che passa sotto le rovine del castello di Wolkenstein e si innesta sul percorso fatto a piedi all’altezza dell’ingresso nel parco, evitando la ripida strada asfaltata che porta a Daunëi.

Volendo evitare la strada asfaltata spaccagambe, ho scelto consapevolmente di incasinarmi l’esistenza dirigendomi verso Santa Cristina ed affrontando la forestale che raggiunge il Rifugio risalendo la valle dalla stazione di partenza della cabinovia Col Raiser. In pratica, l’idea era quella di ripercorrere al contrario un tratto dell’itinerario indicato sulla mia mappa, su una strada che segue la pista da sci.

Meglio perire qui, con onore, che in paese su una lunga salita al 14%.

Descrizione

Da Selva mi sono quindi diretta verso Santa Cristina imboccando Streda Plan da Tieja e poi svoltando seguendo i cartelli per la stazione di valle della cabinovia.

La strada asfaltata che serve impianto ed annessi parcheggi è decisamente ripida. Prosegue poi su fondo buono, alternando bruschi strappi (talvolta asfaltati o con i “binari” per le ruote cementati) a tratti più pedalabili. Insomma, fino qui per una persona un minimo allenata è fattibilissima. Peccato che non sia il mio caso…

Si giunge poi ad un bivio, a sinistra una mulattiera molto sconnessa con indicazioni per il rifugio, a destra due strisce cementate che si inerpicano ripide sul versante: ecco, la mulattiera segnalata porta al sentierino per escursionisti, mi rassegno quindi a spingere la bici lungo la ripida salita, facendo attenzione ai mezzi di servizio dei rifugi.

Superato il “gradino”, ricomincia un’ottima forestale che transita vicino a Malga Sangon, con il panorama che si apre sempre più sulle vette aguzze delle Odle. Un ultimo strappo e ci si innesta sul sentiero percorso a piedi, all’altezza del laghetto, che con la bella giornata si trasforma in uno specchio magico.

Proseguendo, devo dire che facendola a piedi mi era sembrata più difficile, anche se, pedalando, sento un rumore strano, quasi come se la ruota fosse frenata, ma in realtà sembra tutto a posto. È solo l’ultima rampa, stretta e ghiaiosissima, a creare problemi e metto giù il piedino, prima di percorrere l’ultimo tratto e di sbucare davanti al rifugio, piuttosto a tocchi ma soddisfatta.

Stavolta i soldi li ho portati e mi sparo una fetta di strudel. Faccio qualche foto e mi accingo a tornare all’ovile.

Faccio una cinquantina di metri e sento un fracasso infernale. Diamine, va bene che ci sono sassi, però… Però non sono i sassi, è il cambio: cedimento strutturale del forcellino, mentre a me cede strutturalmente, in senso metaforico, qualcosa d’altro e dentro di me si accumula una sequela di improperi che la metà basta.

Niente, mi sa che la componente ciclistica delle mie vacanze è andata a quel paese… È pur vero che volevo cambiare la bici, ma dopo le ferie. Piuttosto attapirata scendo a valle “per gravità”, fermandomi periodicamente per spingere o sistemare il deragliatore che picchia sui raggi. Il rientro lo faccio passando per Juac, se devo sburlare un po’ preferisco farlo senza auto che mi passano accanto.

E la mia compagna di avventure finisce così nello sgabuzzino.

Dati escursione

  • Distanza complessiva: 11km 610m
  • Dislivello positivo: 590m

Link a percorso su Strava

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Come quando fuori piove. Stava1985.

Approfittando di una giornata di pioggia, abbiamo fatto una visita al memoriale delle vittime del disastro della val di Stava. A posteriori dico che val la pena venire qui con un tempo un po’ più clemente, perché questi luoghi meritano un pellegrinaggio laico.

Per non dimenticare.

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Il memoriale di Stava

19 luglio ore 12.22’50”.

Un’ondata di fango si stacca dai pendii del monte Prestavèl , si incunea nell’alveo del torrente Stava alla velocità di circa 90km/h, travolgendo l’abitato di Stava, lambendo Tesero fino a raggiungere la confluenza con l’Avisio.

In pochi minuti muoiono 268 persone, vengono distrutti 3 alberghi, 53 case d’abitazione e 6 capannoni, 8 ponti vengono demoliti e 9 edifici gravemente danneggiati. In pochi minuti un’area di 435.000 metri quadri circa per una lunghezza di 4,2 chilometri si ritrova completamente snaturata, distrutta,  uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri ricoprire prati, strade, macerie, ma in questa bella giornata d’estate il bilancio sarebbe potuto essere ben peggiore se non fosse successo tutto all’ora di pranzo, con molte persone fuori casa per lavoro o perché impegnati in una escursione. 

Questa tragedia, che ai tempi mi aveva colpito moltissimo (in un certo senso, ogni generazione ha il suo “Vajont”, grande o piccolo che sia), di naturale aveva ben poco in quanto era stata causata dall’incoscienza e dall’avidità, dalla superficialità di chi nel corso degli anni ha gestito le miniere di fluorite di Stava, di chi ha realizzato i bacini di decantazione in un luogo non adatto, di chi li ha realizzati 4 volte più alti di quanto autorizzato, di chi ha costruito il secondo bacino senza fondazione per la diga in terra, ma anche di chi ha concesso e non controllato. E non si tratta certo di “dicerie”, parlano le carte processuali: cosa strana per l’Italia, in 7 anni si è arrivati a sentenza definitiva, con 10 condannati fra dirigenti e tecnici dell’azienda, personale della Provincia. Peccato che, fra condoni e sconti vari, nessuno abbia mai realmente scontato la pena detentiva (e questo si, che è tipicamente italiano…).

In tante estati passate in zona non ero mai andata a Stava, abbiamo deciso di andarci in un piovoso pomeriggio di agosto. La struttura del memoriale ospita pannelli illustrativi che spiegano il tipo di lavorazione che si teneva in questa valle, la storia della miniera e della costruzione dei bacini, del disastro e del processo. C’è anche una piccola sala dove viene proiettato un filmato girato con i ragazzi del luogo come attori, per ripercorrere il dramma che si è svolto qui con le storie delle famiglie che ne sono state coinvolte.  

Per me è importante che non si perda la memoria di questi disastri, noi tecnici ogni tanto dovremmo fare un bagno di umiltà e fare pellegrinaggi laici in posti simili per ricordarci che non  possiamo pensare di essere più furbi o più forti delle leggi della natura, che non possiamo pensare di sfangarla contando sulla fortuna. Non possiamo 

Per saperne di più: Fondazione Stava1985.

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