montagna

Lecco Ama La Montagna

SABATO 10 LUGLIO E DOMENICA 11 LUGLIO, LA MONTAGNA PER TUTTI. RAGGIUNGIBILE DA TUTTI.

Un weekend per conoscere la montagna lungo il sentiero Rotary a Lecco, un percorso facile, sicuro e adatto a tutti.

Dallo sport outdoor alla degustazione di piatti tipici, dai laboratori didattici alla giocoleria, dallo yoga all’alba ammirando lo splendido panorama del lago di Como e della valle dell’Adda ad uno stage di corsa fra faggi e abeti.

Il video di presentazione dell’iniziativa.

Per sapere di più: https://leccoamalamontagna.it/

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Anima Montis 2019

Il 28 Marzo prende il via la terza edizione di ANIMAMONTIS Le voci della montagna, rassegna dedicata alla cultura della montagna, promossa e sostenuta dall’Unione di Comuni Lombarda  “Terre di Cascine” Comune di Castelverde e Comune di Pozzaglio ed Uniti e dal Club Alpino Italiano Sezione di Cremona.

Potete trovare un articolo dettagliato sull’evento consultando la sezione L’Eco del Popolo di Welfarenetwork.it

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Dall’alba al tramonto

lastampa.it, 20/12/2018

Le pareti rocciose si stagliano nel cielo rosa dell’alba, per diventare infuocate con quello rosso del tramonto. È la luce dell’inverno a rendere questo volo con il drone sulle Dolomiti spettacolare. La temperatura ambientale va dai -12 ai -20 gradi. ”E’ un posto semplicemente mistico, affascinante, uno dei quei luoghi che ti fa capire perché l’Italia è uno dei Paesi più turistici del mondo”, ha spiegato il regista.  video Reuters

 

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La ritirata (reload)

Lunghi periodi di siccità, precipitazioni intensissime, frane e smottamenti, trombe d’aria, alluvioni, estati molto calde, inverni miti e con poca neve a inizio inverno, nevicate tardive (quando ci sono). Possiamo far finta di non capire, ma i cambiamenti climatici sono ormai cosa reale, e non previsioni catastrofiche da film hollywoodiano ad alto budget. Possiamo anche dare la colpa a Satana, ma di diabolico c’è solo la capacità dell’uomo di voler piegare il mondo in funzione delle sue comodità, del profitto, del potere, senza preoccuparsi degli effetti di lungo periodo, senza riflettere su una cosa basilare: per quanti soldi si possano fare ora, sarebbe anche il caso di mantenere un mondo vivibile in cui spenderli in futuro. O chi se lo potrà permettere colonizzerà Marte, lasciando la Terra ai poveracci?

Fermiamoci, ragioniamo. E ascoltiamo chi ne sa più di noi, per capire cosa c’è da fare, quanto tempo abbiamo per intervenire.

Gli ambienti che rappresentano in modo chiaro quello che sta succedendo, senza possibilità di mascherare gli effetti dei cambiamenti climatici (interventi localizzati e sperimentali a parte) sono quelli di alta montagna, e noi, qui in Italia, dobbiamo volgere uno sguardo alle Alpi, e ai ghiacciai che coprono le vette più alte. Qualche anno fa avevo postato La Ritirata, dove avevo raccolto un po’ di dati e immagini sul tema della drastica regressione che stanno subendo i ghiacciai, con particolare attenzione a ciò che succede sull’arco alpino. Ovviamente la situazione è peggiorata. E non di poco.

Questo può avere pesanti conseguenze su biodiversità, sule attività delle popolazioni locali, sulle riserve idriche.

La parola agli esperti

Da un articolo apparso su ilgiorno.it il 07/10/2018, riporto le parole di alcuni studiosi che si occupano del fenomeno.

I primi risultati dei rilievi sui singoli ghiacciai confermano quanto emerso dai dati di confronto dei vari inventari glaciali. Questi ultimi indicano, ad esempio, che per la Valtellina, intesa in senso stretto, quindi senza la Valchiavenna, si è passati da una superficie glaciale di 81 chilometri quadrati negli anni Sessanta, ai 64 kmq del 2007, sino ai 56 kmq del 2016. Questi sono i dati di una ricerca internazionale, cui partecipa anche l’Università di Milano, elaborati dal dottor Davide Fugazza che sta inventariando tutti i ghiacciai delle Alpi, basandosi su immagini da satellite.

Prof. Claudio Smiraglia Dipartimento Scienze della terra dell’Università statale di Milano

Il ghiacciaio dello Sforzellina (Alpi Retiche). Confronto fra foto del 1920 e del 2005. Archivio del Corriere della Sera

I ghiacciai, in Lombardia – negli ultimi 30 anni si sono dimezzati. Dalla fine degli anni Ottanta a oggi si sono persi 25 kmq. In provincia di Sondrio si perdono circa 15-20 metri all’anno e circa due metri e mezzo di spessore. In altre aree è ancora peggio: si arriva anche a 20

Andrea Toffaletti, Servizio Glaciologico Lombardo

ansa.it, 31/08/2018 (articolo citato)

In un video di Ansa Live, ripreso nel medesimo articolo de ilgiorno.it, le parole di Roberto Dinale, vicedirettore dell’ufficio idrologico della Provincia di Bolzano, unitamente al confronto di foto di varie epoche, relative a ghiacciai presenti sul territorio altoatesino, che mostrano come si siano ritirati circa del 60-70% a partire dall’ultimo massimo che è stato raggiunto nella seconda metà del 1800 durante la piccola età glaciale. L’intervista a Dinale è riportata in un articolo pubblicato su ansa.it il 31/08/2018

I ghiacciai alpini e quelli altoatesini in particolare non sono ancora malati terminali, ma in forte agonia.

Il 2018 è un anno particolarmente negativo per i ghiacciai. Stimiamo che entro fine settembre la perdita complessiva di spessore sarà di circa due metri rispetto all’anno scorso, mentre in un anno normale le perdite sono generalmente di circa un metro e solo un anno ogni dieci il bilancio di massa risulta positivo. (…) Anche se oggi azzerassimo le emissioni di gas serra, solo tra alcuni secoli ne potremmo tranne dei benefici.

 

Valtellina, il video denuncia di Greenpeace: “Ghiacciaio Forni dimezzato, è un malato terminale”

Video.repubblica.it, 12/12/2018

«Il Ghiacciaio dei Forni era uno dei più grandi in Italia, ma oggi praticamente non esiste più»: Claudio Smiraglia, glaciologo dell’Università degli Studi di Milano, studia da quarant’anni studia questo ghiacciaio. «Nell’arco di poco più di un secolo – spiega – ha perso quasi il 50% della sua superficie. A metà dell’Ottocento copriva una superficie di circa 20 chilometri quadrati, oggi si estende per poco più di 10 chilometri. Se non cambierà la situazione climatica, entro fine secolo si ridurrà a pezzetti di ghiaccio».

La situazione dei ghiacciai in Valtellina è confermata da Riccardo Scotti, di Morbegno, responsabile scientifico del servizio glaciologico lombardo: i dati dell’inverno 2017-18 sono i peggiori degli ultimi anni. Un trend in linea, purtroppo, con quello dei decenni precedenti, nei quali alcuni sono spariti e gli altri si sono ridimensionati. Le analisi delle ultime stagioni estive sono ancora più allarmanti. L’articolo pubblicato il 26/07/2018 su “La Provincia di Sondrio” riporta un focus su rapporto fra condizioni meteo e evoluzione della situazione.

Il Monviso piange il ghiaccio perduto. E al Gran Paradiso il termometro sale

Le immagine aeree di Nimbus ritraggono montagne desertiche. Un paesaggio reso lunare dall’estate rovente

Lastampa.it, 24/09/2018

Il ghiacciaio di Ciardoney, in Val Soana. Dal 1972 si è ritirato di 460m

Il presagio di montagne deserte indica ancora un mezzo secolo. Allora i ghiacci saranno in cima ai monti più alti e il resto sarà offerto ai colori lunari, i rossi del ferro, il beige del calcare. L’estate, la quarta più calda negli ultimi centocinquant’anni, ha ridotto all’agonia ciò che resta dei lembi candidi di ghiaccio nelle Alpi Marittime. Nelle vallate piemontesi a ridosso del Gran Paradiso o del Monviso, ai confini con la Francia, le superfici glaciali, nonostante uno degli inverni più nevosi dall’inizio del Terzo millennio, svaniscono a vista d’occhio. L’ultima ricognizione degli esperti di «Nimbus», rivista e sito web della Società meteorologica italiana, ne sono triste conferma. Il «Re di pietra», il Monviso, sulla sua imponente faccia Sud non trattiene che ventagli glaciali. Le immagini riprese dall’aereo durante la ricognizione di «Nimbus» mostrano il ghiacciaio del Viso diviso in due, con morene affioranti al centro e quello di Sella racchiuso in una conca. Sul lato opposto, il ghiacciaio pensile di Coolidge, che crollò in gran parte nel 1989, appare esile quanto pennellate. Ciò che mostra questa vasta aerea alpina sono grandi colate dei «rock-glaciers», fossili di ciò che fu alla fine delle Piccola era glaciale, intorno al 1870.

Tra il Monviso e le Alpi Marittime si annidano alcuni piccolissimi ghiacciai, in forte disgregazione e prossimi a estinguersi, tuttavia di particolare interesse, molto sensibili al riscaldamento globale

Daniele Cat Berro, dal report di “Nimbus” del 21 settembre

Sono le Alpi a indicarci, come più volte ricordata dai glaciologi e dai meteorologi come Luca Mercalli, il destino della febbre del Pianeta. A Sud-Ovest del Monviso, in Francia, non distante dal confine tra la cuneese Val Maira e l’Ubaye, è rimasta una minigonna glaciale al piede della parete Nord dell’Aiguille de Chambeyron: è il ghiacciaio occidentale De Marinet, mentre il ramo orientale è soltanto memoria. In un secolo il versante Sud-Orientale del Massiccio dell’Argentera (nella Valle Gesso, Cuneo) ha perso il ghiaccio; le sue macchie di neve sono soltanto accumuli di valanga. Resta il ghiaccio delle Alpi Marittime nel gruppo Clapier-Maledia-Gelas. Ma hanno gli anni contati, nonostante siano all’ombra di pareti Nord. «Nimbus» mostra l’immagine del ghiacciaio annerito da detriti e fusione, del ghiacciaio più meridionale di tutta la Catena alpina, quello di Clapier, ai piedi della montagna omonima, il Tremila più a Sud, nella Valle di Entracque (Cuneo), ai confini con la Francia.

Se ci si sposta nel Parco nazionale del Gran Paradiso la diagnosi per le superfici glaciali, così come per il «permafrost», il collante gelido che offre compattezza ai monti, non è certo più ottimistica. Il Ghiacciaio di Ciardoney, in Val Soana, ha perso, secondo le misurazioni di Cat Berro e Luca Mercalli 1,45 metri d’acqua, con una regressione della fronte di 15 metri e mezzo. Dal 1972 ad oggi il ritiro è stato di 460 metri.

La mostra a cura di Greenpeace

Roma – Una mostra per capire

Per testimoniare gli impatti del clima che cambia, in Italia e su tutto il Pianeta, Greenpeace Italia ha organizzato la mostra fotografica “Vento, caldo, pioggia, tempesta. Istantanee di vita e ambiente nell’era dei cambiamenti climatici”, aperta al pubblico fino al 10 marzo 2019 nel Museo di Roma in Trastevere.

«I cambiamenti climatici sono ormai una devastante realtà con la quale dobbiamo fare i cont: nubifragi, ondate di calore, siccità e tutti i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti. L’unica soluzione è quella di abbandonare carbone, petrolio e gas, accelerare la transizione energetica verso un mondo totalmente rinnovabile, oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione

Luca Iacoboni, responsabile campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia

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La diga del Gleno (quel che rimane…)

Se si pensa alle parole “disastro” e “diga”, viene spontaneo pensare al Vajont e ai suoi quasi 2000 morti o, in tempi più recenti, a Stava, in Trentino.

In Italia, purtroppo, di disastri legati all’opera dell’uomo, e alle dighe in particolare, se ne sono verificati altri, meno conosciuti, a dispetto della bravura di ingegneri e maestranze italiane, che nel campo dell’idroelettrico si sono fatti un nome a livello mondiale. Qualche giorno fa ricorreva il 95° anniversario di un altro disastro meno noto, quello della diga del Gleno, in provincia di Brescia. La storia poco edificante che sta dietro alla costruzione di questo sbarramento e allo scempio che ne è derivato è ben descritta sul sito http://www.molare.net, nato per ricordare un altro crollo, quello della diga di Molare, nel quale vengono descritti itinerari escursionistici nei luoghi che hanno visto fallire l’uomo, perché superficialità e sete di denaro hanno preso il sopravvento sulla perizia. Perché la natura fa il suo corso e non perdona, e l’acqua, se deve trovarsi una strada, ci riesce….

Riporto qui la storia della diga del Gleno, con qualche indicazione sul percorso escursionistico che si può fare nella zona. Rimando alla pagina http://www.molare.net/disastri_simili/disastri_gleno.html per gli approfondimenti (si può anche scaricare una pubblicazione tecnica resa disponibile da Umberto Barbisan, Professore Associato di Tipologia Strutturale all’Università Iuav di Venezia), al sito www.scalve.it, all’articolo su l’Eco di Bergamo e al servizio andato in onda su TeleBoario.

Le rovine della diga, viste da monte

La storia della diga

La storia della Diga del Gleno ha origine nei primi anni del 1900 come pure quella narrata nel Disastro di Molare. Già durante la seconda metà del ‘800 l’Italia operosa aveva sete di corrente idroelettrica. Fortemente penalizzati dalla carenza di carbon fossile (il motore della Rivoluzione Industriale) gli Italiani e le loro attività produttive altro non poterono fare che ripiegare in “fonti elettriche alternative”. L’arco alpino, con le sue innumerevoli valli era sito ideale, per lo sviluppo idroelettrico. Quest’ultimo trovò impulso decisivo grazie a una serie di progettisti molto capaci e da ditte private ed impresari “pre-ENEL” pronti con i loro capitali ad investire in questo business.

Fu così, che nel 1907 venne richiesta una concessione per lo sfruttamento idroelettrico del T.Povo da parte di tal Ing.Tosana di Brescia. La concessione venne poi ceduta all’Ing. Gmur di Bergamo e poi alla Ditta Galeazzo Viganò di Truggio (Milano). Nel 1917 il Ministero del Lavori Pubblici fissò a 3.900.000 mc la capacità di invaso in Loc. Pian del Gleno. Pochi mesi dopo la Ditta Viganò notificò l’inizio dei lavori. Piccolo particolare: il progetto esecutivo non era stato ancora approvato dall’autorità competente (Genio Civile)! Dopo una serie di proroghe venne presentato nel 1919 il progetto esecutivo per una diga a gravità a firma dell’Ing. Gmur. Quest’ultimo però morì un anno dopo e la Ditta Viganò assunse l’Ing. Santangelo di Palermo. Nel 1921 venne approvato il progetto esecutivo dell’ing. Gmur con i lavori già da qualche anno avviati.

Nell’anno 1921 la Ditta Vigano appaltò alla Ditta Vita & C. le opere di edificazione delle arcate. Nell’agosto del 1921 l’Ing. Lombardo del Genio Civile eseguì un sopralluogo al cantiere. E’ buffo immaginare la sua faccia quando constatò che la tipologia costruttiva della diga a progetto, cioè a gravità (lo sbarramento che si oppone alla spinta del lago grazie al suo peso), era stato cambiata in corso d’opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago). Rilevò infatti che stavano per essere costruite le basi delle arcate e che, quelle nella parte centrale della diga non erano appoggiate sulla roccia ma sul tampone a gravità (come in una sorta di castello di carte !!!). Ne seguì l’immediata diffida al proseguire la costruzione e venne ingiunto alla Ditta Viganò di presentare un nuovo progetto (quasi si trattasse di una semplice abitazione in cui è stata variata la posizione di un paio di finestre rispetto al progetto). Comunque i lavori andarono avanti alla faccia dei vari sopralluoghi dell’Ing. Lombardo e solo nei primi mesi del 1923 venne presentato il progetto.

La diga quasi ultimata. E’ visibile il tampone a gravità, su cui si fonda parte della diga

Nell’ottobre del 1923 il lago venne riempito a seguito delle violenti precipitazioni. Vi furono problemi negli scaricatori superficiali ma soprattutto si innescarono massicce perdite d’acqua alla base delle arcate sovrastanti il tampone a gravità. Tali perdite furono sfruttate nelle ore notturne per la produzione di energia elettrica !! La diga non poteva dirsi ultimata. Ancora numerose opere edili dovevano essere portate a termine. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di Novembre. Il 1° dicembre 1923 alle 6.30 il Sig. Morzenti, guardiano della diga (collega di sventura del Sig. De Guz di Molare) avvertì un “moto sussultorio violento“. In seguito la difesa della Ditta Viganò ipotizzò addirittura che vi vosse stata un’esplosione causata da un atto terroristico. Il 1° dicembre 1923, alle 7.15 avvenne il crollo delle dieci arcate centrali della Diga. Una massa d’acqua di volume compreso tra 5-6 milioni di metri cubi iniziò la sua folle corsa verso valle.

Vista aerea delle rovine della diga e del Lago del Gleno (fonte Ecodibergamo.it)

 

Bueggio, frazione di Vilminore, fu quasi immediatamente travolta. Le due centrali elettriche vennero rase al suolo, così come due chiese ed il cimitero. L’acqua percorse lo stretto alveo montano del T.Povo sino alla confluenza con il T.Dezzo. L’omonima località scomparì, così come la centrale elettrica, l’antico ponte, la strada e la fonderia per la produzione di ghisa la quale determinò un terrificante spettacolo di acqua, fiamme e vapore. All’altezza di Angolo il T.Dezzo forma una serie di spettacolari forre. L’ondata, colma di detriti, creò delle ostruzioni temporanee con effetti terrificanti. Infatti, nei punti più stretti si crearono dei laghi che dopo pochi istanti riuscivano a sfondare le dighe di detrito, causando ondate ancora più distruttive. Molte località furono gravemente falcidiate: in Loc. Mazzunno venne distrutta la quarta centrale elettrica. L’ondata si precipitò nell’odierna Boario Terme. Le Ferriere di Voltri vennero gravemente danneggiate e vi furono gravissimi danni alle viabilità ed alle strutture. Più a valle (Corna e Darfo) la valle del Povo si allarga e raggiunge il T.Oglio. L’energia dell’ondata andò attenuandosi ma causò ancora vittime a gravissimi danni sino a raggiungere il Lago d’Iseo. Qui lo spettacolo non fu meno terribile: una cinquantina di salme galleggiavano nell’acqua torbida. Il calcolo delle vittime fu stimato sulle 500 unità. Le vittime ufficiali del Disastro del Gleno sono circa 360. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l’Ing. Santangelo a tre anni e quattro mesi più 7.500 Lire di multa. Va ricordato che la maggioranza dei sinistrati fu’ precedentemente economicamente tacitata. Il Cav. Viganò morì nel 1928 “vinto da cinque anni di indicibili amarezze“.

Distruzione a Darfo (www.pegliese.it)

Testimonianze

I racconti dei testimoni raccolti nel tempo sono state pubblicate in alcuni libri. Alcuni stralci sono disponibili sul sito www.scalve.it.

Perché la Diga del Gleno è crollata ?

Il Disastro del Gleno rappresenta un esempio macroscopico degli effetti di un’approssimativa progettazione e malcostruzione di una diga. La scelta (dettata da ragioni puramente economiche) di variare in corso d’opera la tipologia stessa della Diga ha rappresentato una sorta di bestemmia strutturale.

Le dighe ad archi multipli presupponevano un ottimo terreno d’appoggio poiché le volte hanno la funzione di trasmettere gli elevati carichi alle fondazioni. Quest’ultime devono essere dunque incastonate in roccia compatta ed integra. A Pian del Gleno le rocce subivano gli effetti degradanti del gelo e disgelo ed inoltre erano state sottoposte all’azione dei ghiacciai durante le glaciazioni. Ma, anche tralasciando il fattore geologico dell’area, ben undici arcate furono appoggiate direttamente sul tampone a gravità inizialmente costruito. Si creò una pericolosissima discontinuità strutturale. Solo un’accuratissima esecuzione delle opere avrebbe garantito un certo grado di sicurezza. Durante la fase istruttoria del processo vennero sentiti molti testimoni. Il quadro che ne risultò fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Non solo: le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all’antica, che non tollerava l’intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo vi impiegavano tanto era di guadagnato. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all’interno dei piloni! Ed ancora: venne criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano !! Con queste premesse (e ve ne furono molte altre) il disastro fu inevitabile. Al contrario del Vajont non vi fu nessuna corsa al collaudo perché non vi fu alcun collaudo.

Itinerari escursionistici

La diga è raggiungibile dalla frazione Pianezza, percorrendo il sentiero CAI n.411. Per una descrizione del percorso si può far riferimento al già citato sito www.molare.net, nella sezione dedicata al Gleno.

APE Brescia e Kamunia escursionismo hanno organizzato un’escursione alla diga in occasione dell’anniversario del crollo. Sulla pagina dell’evento potete trovare la descrizione del percorso seguito e numerose foto scattate ai piedi delle rovine e nelle valli circostanti.

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La forza della natura, le colpe dell’uomo

Lungo la strada per il Gardeccia (pagina facebook Rifugi del Trentino)

Nei giorni 27-29 ottobre tutta l’Italia è stata flagellata dal maltempo, particolarmente colpite sono state la Liguria, con mareggiate impressionanti che hanno fatto danni indicibili a Rapallo e hanno distrutto la spiaggia di Boccadasse, e le Alpi fra Carnia, Veneto, Alto Adige e Trentino. Piange il cuore vedere boschi interi completamente distrutti, un numero di alberi abbattuti dalla forza del vento che, a chiamare a raccolta i boscaioli delle aree interessate, ci vorrebbero almeno tre anni per abbattere una tal quantità di larici ed abeti.

Carezza – Strada per Passo Costalunga (pagina facebook Rifugi del Trentino)

Le foreste di abeti di risonanza di Paneveggio, del Latemar e della Carnia hanno subito danni impressionanti. Il bellunese è in ginocchio. con comunità che sono rimaste isolate e senza elettricità (la situazione in questa zona è stata ben descritta nel servizio di Diego Bianchi per Propagandalive).

La diga di Comelico, nel servizio andato in onda su Propagandalive

Sul sito DolomitiMeteo è stato pubblicato un articolo nel quale vengono esposte le modalità con cui si è formato questo ciclone, e i dati (impressionanti) relativi alle velocità di picco raggiunte dalle raffiche di vento:

128km/h Passo Valles

148km/h Capo Carbonara (Sardegna)

155km/h colle di Cadibona (Savona)

180km/h Marina di Loano

200km/h Monte Rest (Prealpi carniche)

204km/h Monte gomito (Appennino Tosco-Emiliano)

E, nei giorni successivi, altri disastri in altre regioni. La Sicilia, soprattutto.

Boccadasse, 01/07/2018

Spiaggia di Boccadasse, dopo la tempesta (fonte: ilsussidiario.net)

Ma questa natura “cattiva” non è così per un castigo divino. E’ così perché sta reagendo ai cambiamenti in atto.

Ed è semplicemente colpa nostra.

Colpa dei nostri governi che inseguono l’interesse immediato, di bottega, alla caccia di un ritorno elettorale, senza curarsi degli effetti di lungo termine delle scelte scellerate fatte nel tempo.

Colpa loro che scaricano le responsabilità sugli altri, e la definizione di “ambientalista da salotto” fa particolarmente incazzare se arriva da una componente politica che, avendo governato per vent’anni alcuni dei territori devastati, deve trovare un capro espiatorio, omettendo di dire che i suoi rappresentanti in UE hanno addirittura votato contro il recepimento di quanto stabilito con la COP21.

Colpa dei Governi che si sono via via avvicendati se i soldi per manutenzione del territorio sono insufficienti e vengono spesi male, se somme ingenti vengono spese per coccolare le società che operano nel campo delle fonti fossili, invece di investirle in un serio piano di riconversione radicale dell’economia (che porterebbe pure un sacco di lavoro). Colpa loro se si fanno condoni periodici, se mancano le somme necessarie alle demolizioni degli edifici abusivi, se gli amministratori locali, che si trovano ad operare sul territorio fra minacce e ricatti, sono senza un adeguato sostegno da parte dello Stato.

Colpa nostra che non chiediamo conto di tutto ciò.

Colpa nostra che non ci incazziamo perché siamo pigri, perché basta che abbiamo quello che ci serve (e anche quello che non ci serve), perché basta che non vengano toccati i nostri piccoli interessi di bottega, e il resto chissenefrega.

Colpa nostra che non abbiamo la voglia di scendere in piazza a far casino per tutelare ciò che deve sopravvivere a noi, e che andrà abitato dai nostri figli e nipoti. Colpa nostra che, con le nostre azioni quotidiane, siamo i primi a minare gli equilibri della natura.

I cambiamenti climatici sono in atto, lo sfruttamento del territorio è arrivato a livelli improponibili. Abbiamo ancora poco tempo per intervenire.

Dobbiamo intervenire subito.

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Il trenino della Val Gardena

Per puro “caso” (si, insomma, stavo smanettando con un mio video girato in Val Gardena), youtube ha inserito fra i video consigliati questa chicca.

Si tratta di un video degli anni ’50, con protagonista assoluta la ferrovia della Val Gardena, della quale avevo parlato qui.

E’ interessante anche la storia di questo video, raccontata nella didascalia e nei commenti dall’utente che ha caricato il video.

Buona visione!!!

 

 

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55 anni dopo

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.

Dino Buzzati – Corriere della Sera, 11/10/1963

Sono passati 55 anni, e non è che abbiamo imparato molto, di questo disastro che non è proprio naturale naturale…

Questa storia è stata magistralmente raccontata da Marco Paolini, che si è girato l’Italia fra teatri e università, perché la memoria è fondamentale, per non rifare gli stessi errori. E il 9/10/1997 ha portato la sua orazione civile su, ai piedi della frana.

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La forma dell’acqua

“Che fai?” gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una domanda. “Qual è la forma dell’acqua?”. “Ma l’acqua non ha forma!” dissi ridendo: “Piglia la forma che le viene data”.

Andrea Camilleri “La forma dell’acqua” – Sellerio editore, 1994

L’acqua non ha forma.

Ma cosa succede se l’acqua è troppa per la forma che generalmente la contiene, e se questa forma non è fissa, ma può mutare?

Il 3 luglio in Val di Fassa (e in altre zone del Trentino) si sono verificati fortissimi temporali, ma nella zona di Moena la natura si è accanita in modo estremamente intenso, causando numerose frane e l’esondazione del torrente Costalunga. Le immagini radar della Protezione Civile del Trentino hanno evidenziato una zona circolare con un raggio di 6 chilometri centrato sull’abitato di Moena, in cui si sono concentrate le precipitazioni dalle ore 14 alle 18, con circa 130 millimetri di pioggia. Ci sarebbe, prima di tutto, da chiedersi quanto ci sia di veramente “naturale” in fenomeni così estremi e sempre più frequenti, e quanto c’entrino le conseguenze delle attività umane con le modifiche, sempre più evidenti, subite dal ciclo delle stagioni… ma, per il momento, passiamo oltre…

Una tale quantità d’acqua prende al forma che sta al di fuori del contenitore abituale, ne stravolge la forma, modifica ciò che sta intorno. Si crea nuovi “contenitori provvisori”, a volte.

Mentre girando per Moena puoi non cogliere i segni visibili di ciò che è successo poco più di un mese fa, appena metti il naso fuori dal centro abitato te ne accorgi, che qualcosa è successo. Sulla strada per Passo San Pellegrino è attivo un cantiere, nei pressi di Malga Roncac, spostata di lato alla strada, c’è ancora una transenna con il cartello di divieto di transito su una forestale che scavalca il Rio Costalunga.

Lunedì mi sono imbattuta nelle conseguenze concrete di questi fenomeni “naturali”. Anche se minacciava pioggia, sono partita per andare a Passo San Pellegrino via sterrato, percorso che ho fatto più volte (ne ho parlato, ad esempio, nel post dedicato a Fuciade, e rientra anche nel percorso ad anello attraverso i Monzoni, che non ho ancora avuto il tempo di mettere nero su bianco).

Dopo essere passata dietro la partenza della funivia del Lusia, ho seguito la strada in destra torrente fino al punto in cui la statale passa sopra al torrente. Qui si percorre in discesa il ponte e si riprende lo sterrato sul lato opposto della valle. Qui ho trovato affisso il cartello con l’ordinanza di chiusura di una forestale che transita a monte di Moena, ma, dato che non riguardava la strada che dovevo percorrere io, sono andata avanti.

Non è che poi la mia escursione sia proseguita molto oltre quel cartello… Appena la forestale è diventata un po’ più ripida, i segni del passaggio dell’acqua si sono fatti via via più marcati. L’ottimo fondo della forestale è stato totalmente rimaneggiato dalla furia dell’acqua, che ha asportato il fine, smosso ciottoli, scoperto il substrato roccioso e scavato solchi profondi una spanna.

Io ho provato a proseguire per un po’, in parte pedalando, ma con la difficoltà a seguire una traiettoria senza infilare la ruota in una buca. Ho spinto la bici per un tratto, poi mi sono arresa e sono tornata indietro, perché non l’ho trovato per nulla divertente.

Ho saputo poi che la forestale chiusa, citata nell’ordinanza, è franata per un tratto, e richiede interventi di ripristino.

Ecco, forse la prossima volta che ci saranno danni da maltempo sarà opportuno fare una visitina all’ufficio turistico, prima di pianificare le escursioni…

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Vivere il Vajolet

Le parole di Valeria e Stefan, titolari del Rifugio Re Alberto.

Le immagini spettacolari del Catinaccio e del Vajolet.

Buona visione

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