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Come quando fuori piove. Stava1985.

Approfittando di una giornata di pioggia, abbiamo fatto una visita al memoriale delle vittime del disastro della val di Stava. A posteriori dico che val la pena venire qui con un tempo un po’ più clemente, perché questi luoghi meritano un pellegrinaggio laico.

Per non dimenticare.

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Il memoriale di Stava

19 luglio ore 12.22’50”.

Un’ondata di fango si stacca dai pendii del monte Prestavèl , si incunea nell’alveo del torrente Stava alla velocità di circa 90km/h, travolgendo l’abitato di Stava, lambendo Tesero fino a raggiungere la confluenza con l’Avisio.

In pochi minuti muoiono 268 persone, vengono distrutti 3 alberghi, 53 case d’abitazione e 6 capannoni, 8 ponti vengono demoliti e 9 edifici gravemente danneggiati. In pochi minuti un’area di 435.000 metri quadri circa per una lunghezza di 4,2 chilometri si ritrova completamente snaturata, distrutta,  uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri ricoprire prati, strade, macerie, ma in questa bella giornata d’estate il bilancio sarebbe potuto essere ben peggiore se non fosse successo tutto all’ora di pranzo, con molte persone fuori casa per lavoro o perché impegnati in una escursione. 

Questa tragedia, che ai tempi mi aveva colpito moltissimo (in un certo senso, ogni generazione ha il suo “Vajont”, grande o piccolo che sia), di naturale aveva ben poco in quanto era stata causata dall’incoscienza e dall’avidità, dalla superficialità di chi nel corso degli anni ha gestito le miniere di fluorite di Stava, di chi ha realizzato i bacini di decantazione in un luogo non adatto, di chi li ha realizzati 4 volte più alti di quanto autorizzato, di chi ha costruito il secondo bacino senza fondazione per la diga in terra, ma anche di chi ha concesso e non controllato. E non si tratta certo di “dicerie”, parlano le carte processuali: cosa strana per l’Italia, in 7 anni si è arrivati a sentenza definitiva, con 10 condannati fra dirigenti e tecnici dell’azienda, personale della Provincia. Peccato che, fra condoni e sconti vari, nessuno abbia mai realmente scontato la pena detentiva (e questo si, che è tipicamente italiano…).

In tante estati passate in zona non ero mai andata a Stava, abbiamo deciso di andarci in un piovoso pomeriggio di agosto. La struttura del memoriale ospita pannelli illustrativi che spiegano il tipo di lavorazione che si teneva in questa valle, la storia della miniera e della costruzione dei bacini, del disastro e del processo. C’è anche una piccola sala dove viene proiettato un filmato girato con i ragazzi del luogo come attori, per ripercorrere il dramma che si è svolto qui con le storie delle famiglie che ne sono state coinvolte.  

Per me è importante che non si perda la memoria di questi disastri, noi tecnici ogni tanto dovremmo fare un bagno di umiltà e fare pellegrinaggi laici in posti simili per ricordarci che non  possiamo pensare di essere più furbi o più forti delle leggi della natura, che non possiamo pensare di sfangarla contando sulla fortuna. Non possiamo 

Per saperne di più: Fondazione Stava1985.

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Potrebbe andare meglio, potrebbe piovere

Il Po in secca

Venerdì a casa, finalmente un giorno libero in una bella giornata. Stavolta l’occasione non me la faccio scappare, rispolvero la mia mtb. Prima però il figlio da portare a scuola, la spesa da fare (perché posso anche togliermi la fame di bici, ma se il frigo è vuoto la sera sono cavoli amari), poi finalmente via, in sella!!!

A me piace andare in giro in questo periodo. Gli alberi sono ancora spogli, i campi sono a riposo, o si colorano di un verde brillante se già seminati… e si riescono a cogliere le lievi ondulazioni del terreno lasciate dall’acqua che occupava queste campagne, prima che Adda e Serio si ritirassero verso gli alvei attuali e le bonifiche facessero il resto. La pianura non è poi così piatta, ma quando cresce il mais viene tutto livellato.

Roggione zona Sant’Archelao

E avvicinandosi al corso dei fiumi il lavoro fatto dall’acqua è sempre più visibile.

Già, l’acqua. Quale acqua? Si fa quasi fatica a nominarla. Sono mesi che non piove, al massimo uno sputacchio insignificante ogni tanto. In montagna è nevicato poco. E quando si arriva alla Morta dell’Adda lo spettacolo è sconsolante.

Morta dell’Adda, 08/03/2019

Morta dell’Adda, 08/03/2019

Foto scattata dallo stesso punto della precedente, settembre 2016

C’è pochissima acqua, due aironi sulla sponda opposta se ne volano via. Qui ci sono stata spesso, anche in inverno (mi è capitato di trovare tutto ghiacciato), ma sinceramente non ricordo di aver mai trovato una situazione del genere, nemmeno in piena estate.

E anche il Po non scherza: quardando verso la Bocca d’Adda e Isola Serafini si notano spiaggioni immensi, e il la prua di una barca di legno che emerge dalla sabbia.

Il Po nei pressi della Bocca dell’Adda

La situazione è drammatica, gli agricoltori sono seriamente preoccupati.

E questi periodi di siccità saranno sempre più frequenti, visti i cambiamenti che stanno apportando all’ambiente con il nostro stile di vita assolutamente non compatibile con gli equilibri ambientali. Serve, e rapidamente, un cambio di passo radicale, se non vogliamo diventare anche noi dei profughi climatici.

Venerdì 15/03 ci sarà lo Sciopero Globale per il Clima, una mobilitazione geneale per chiedere misure serie a mitigazione dei cambiamenti climatici. Speriamo che chi ha il potere di prendere decisioni si decida ad agire, perché senza politiche di ampio respiro e una visione sul.lungo periodo i comportamenti dei singoli servono a poco.

15 marzo 2019 – Sciopero Globale per il Clima

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La ritirata (reload)

Lunghi periodi di siccità, precipitazioni intensissime, frane e smottamenti, trombe d’aria, alluvioni, estati molto calde, inverni miti e con poca neve a inizio inverno, nevicate tardive (quando ci sono). Possiamo far finta di non capire, ma i cambiamenti climatici sono ormai cosa reale, e non previsioni catastrofiche da film hollywoodiano ad alto budget. Possiamo anche dare la colpa a Satana, ma di diabolico c’è solo la capacità dell’uomo di voler piegare il mondo in funzione delle sue comodità, del profitto, del potere, senza preoccuparsi degli effetti di lungo periodo, senza riflettere su una cosa basilare: per quanti soldi si possano fare ora, sarebbe anche il caso di mantenere un mondo vivibile in cui spenderli in futuro. O chi se lo potrà permettere colonizzerà Marte, lasciando la Terra ai poveracci?

Fermiamoci, ragioniamo. E ascoltiamo chi ne sa più di noi, per capire cosa c’è da fare, quanto tempo abbiamo per intervenire.

Gli ambienti che rappresentano in modo chiaro quello che sta succedendo, senza possibilità di mascherare gli effetti dei cambiamenti climatici (interventi localizzati e sperimentali a parte) sono quelli di alta montagna, e noi, qui in Italia, dobbiamo volgere uno sguardo alle Alpi, e ai ghiacciai che coprono le vette più alte. Qualche anno fa avevo postato La Ritirata, dove avevo raccolto un po’ di dati e immagini sul tema della drastica regressione che stanno subendo i ghiacciai, con particolare attenzione a ciò che succede sull’arco alpino. Ovviamente la situazione è peggiorata. E non di poco.

Questo può avere pesanti conseguenze su biodiversità, sule attività delle popolazioni locali, sulle riserve idriche.

La parola agli esperti

Da un articolo apparso su ilgiorno.it il 07/10/2018, riporto le parole di alcuni studiosi che si occupano del fenomeno.

I primi risultati dei rilievi sui singoli ghiacciai confermano quanto emerso dai dati di confronto dei vari inventari glaciali. Questi ultimi indicano, ad esempio, che per la Valtellina, intesa in senso stretto, quindi senza la Valchiavenna, si è passati da una superficie glaciale di 81 chilometri quadrati negli anni Sessanta, ai 64 kmq del 2007, sino ai 56 kmq del 2016. Questi sono i dati di una ricerca internazionale, cui partecipa anche l’Università di Milano, elaborati dal dottor Davide Fugazza che sta inventariando tutti i ghiacciai delle Alpi, basandosi su immagini da satellite.

Prof. Claudio Smiraglia Dipartimento Scienze della terra dell’Università statale di Milano

Il ghiacciaio dello Sforzellina (Alpi Retiche). Confronto fra foto del 1920 e del 2005. Archivio del Corriere della Sera

I ghiacciai, in Lombardia – negli ultimi 30 anni si sono dimezzati. Dalla fine degli anni Ottanta a oggi si sono persi 25 kmq. In provincia di Sondrio si perdono circa 15-20 metri all’anno e circa due metri e mezzo di spessore. In altre aree è ancora peggio: si arriva anche a 20

Andrea Toffaletti, Servizio Glaciologico Lombardo

ansa.it, 31/08/2018 (articolo citato)

In un video di Ansa Live, ripreso nel medesimo articolo de ilgiorno.it, le parole di Roberto Dinale, vicedirettore dell’ufficio idrologico della Provincia di Bolzano, unitamente al confronto di foto di varie epoche, relative a ghiacciai presenti sul territorio altoatesino, che mostrano come si siano ritirati circa del 60-70% a partire dall’ultimo massimo che è stato raggiunto nella seconda metà del 1800 durante la piccola età glaciale. L’intervista a Dinale è riportata in un articolo pubblicato su ansa.it il 31/08/2018

I ghiacciai alpini e quelli altoatesini in particolare non sono ancora malati terminali, ma in forte agonia.

Il 2018 è un anno particolarmente negativo per i ghiacciai. Stimiamo che entro fine settembre la perdita complessiva di spessore sarà di circa due metri rispetto all’anno scorso, mentre in un anno normale le perdite sono generalmente di circa un metro e solo un anno ogni dieci il bilancio di massa risulta positivo. (…) Anche se oggi azzerassimo le emissioni di gas serra, solo tra alcuni secoli ne potremmo tranne dei benefici.

 

Valtellina, il video denuncia di Greenpeace: “Ghiacciaio Forni dimezzato, è un malato terminale”

Video.repubblica.it, 12/12/2018

«Il Ghiacciaio dei Forni era uno dei più grandi in Italia, ma oggi praticamente non esiste più»: Claudio Smiraglia, glaciologo dell’Università degli Studi di Milano, studia da quarant’anni studia questo ghiacciaio. «Nell’arco di poco più di un secolo – spiega – ha perso quasi il 50% della sua superficie. A metà dell’Ottocento copriva una superficie di circa 20 chilometri quadrati, oggi si estende per poco più di 10 chilometri. Se non cambierà la situazione climatica, entro fine secolo si ridurrà a pezzetti di ghiaccio».

La situazione dei ghiacciai in Valtellina è confermata da Riccardo Scotti, di Morbegno, responsabile scientifico del servizio glaciologico lombardo: i dati dell’inverno 2017-18 sono i peggiori degli ultimi anni. Un trend in linea, purtroppo, con quello dei decenni precedenti, nei quali alcuni sono spariti e gli altri si sono ridimensionati. Le analisi delle ultime stagioni estive sono ancora più allarmanti. L’articolo pubblicato il 26/07/2018 su “La Provincia di Sondrio” riporta un focus su rapporto fra condizioni meteo e evoluzione della situazione.

Il Monviso piange il ghiaccio perduto. E al Gran Paradiso il termometro sale

Le immagine aeree di Nimbus ritraggono montagne desertiche. Un paesaggio reso lunare dall’estate rovente

Lastampa.it, 24/09/2018

Il ghiacciaio di Ciardoney, in Val Soana. Dal 1972 si è ritirato di 460m

Il presagio di montagne deserte indica ancora un mezzo secolo. Allora i ghiacci saranno in cima ai monti più alti e il resto sarà offerto ai colori lunari, i rossi del ferro, il beige del calcare. L’estate, la quarta più calda negli ultimi centocinquant’anni, ha ridotto all’agonia ciò che resta dei lembi candidi di ghiaccio nelle Alpi Marittime. Nelle vallate piemontesi a ridosso del Gran Paradiso o del Monviso, ai confini con la Francia, le superfici glaciali, nonostante uno degli inverni più nevosi dall’inizio del Terzo millennio, svaniscono a vista d’occhio. L’ultima ricognizione degli esperti di «Nimbus», rivista e sito web della Società meteorologica italiana, ne sono triste conferma. Il «Re di pietra», il Monviso, sulla sua imponente faccia Sud non trattiene che ventagli glaciali. Le immagini riprese dall’aereo durante la ricognizione di «Nimbus» mostrano il ghiacciaio del Viso diviso in due, con morene affioranti al centro e quello di Sella racchiuso in una conca. Sul lato opposto, il ghiacciaio pensile di Coolidge, che crollò in gran parte nel 1989, appare esile quanto pennellate. Ciò che mostra questa vasta aerea alpina sono grandi colate dei «rock-glaciers», fossili di ciò che fu alla fine delle Piccola era glaciale, intorno al 1870.

Tra il Monviso e le Alpi Marittime si annidano alcuni piccolissimi ghiacciai, in forte disgregazione e prossimi a estinguersi, tuttavia di particolare interesse, molto sensibili al riscaldamento globale

Daniele Cat Berro, dal report di “Nimbus” del 21 settembre

Sono le Alpi a indicarci, come più volte ricordata dai glaciologi e dai meteorologi come Luca Mercalli, il destino della febbre del Pianeta. A Sud-Ovest del Monviso, in Francia, non distante dal confine tra la cuneese Val Maira e l’Ubaye, è rimasta una minigonna glaciale al piede della parete Nord dell’Aiguille de Chambeyron: è il ghiacciaio occidentale De Marinet, mentre il ramo orientale è soltanto memoria. In un secolo il versante Sud-Orientale del Massiccio dell’Argentera (nella Valle Gesso, Cuneo) ha perso il ghiaccio; le sue macchie di neve sono soltanto accumuli di valanga. Resta il ghiaccio delle Alpi Marittime nel gruppo Clapier-Maledia-Gelas. Ma hanno gli anni contati, nonostante siano all’ombra di pareti Nord. «Nimbus» mostra l’immagine del ghiacciaio annerito da detriti e fusione, del ghiacciaio più meridionale di tutta la Catena alpina, quello di Clapier, ai piedi della montagna omonima, il Tremila più a Sud, nella Valle di Entracque (Cuneo), ai confini con la Francia.

Se ci si sposta nel Parco nazionale del Gran Paradiso la diagnosi per le superfici glaciali, così come per il «permafrost», il collante gelido che offre compattezza ai monti, non è certo più ottimistica. Il Ghiacciaio di Ciardoney, in Val Soana, ha perso, secondo le misurazioni di Cat Berro e Luca Mercalli 1,45 metri d’acqua, con una regressione della fronte di 15 metri e mezzo. Dal 1972 ad oggi il ritiro è stato di 460 metri.

La mostra a cura di Greenpeace

Roma – Una mostra per capire

Per testimoniare gli impatti del clima che cambia, in Italia e su tutto il Pianeta, Greenpeace Italia ha organizzato la mostra fotografica “Vento, caldo, pioggia, tempesta. Istantanee di vita e ambiente nell’era dei cambiamenti climatici”, aperta al pubblico fino al 10 marzo 2019 nel Museo di Roma in Trastevere.

«I cambiamenti climatici sono ormai una devastante realtà con la quale dobbiamo fare i cont: nubifragi, ondate di calore, siccità e tutti i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti. L’unica soluzione è quella di abbandonare carbone, petrolio e gas, accelerare la transizione energetica verso un mondo totalmente rinnovabile, oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione

Luca Iacoboni, responsabile campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia

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La forza della natura, le colpe dell’uomo

Lungo la strada per il Gardeccia (pagina facebook Rifugi del Trentino)

Nei giorni 27-29 ottobre tutta l’Italia è stata flagellata dal maltempo, particolarmente colpite sono state la Liguria, con mareggiate impressionanti che hanno fatto danni indicibili a Rapallo e hanno distrutto la spiaggia di Boccadasse, e le Alpi fra Carnia, Veneto, Alto Adige e Trentino. Piange il cuore vedere boschi interi completamente distrutti, un numero di alberi abbattuti dalla forza del vento che, a chiamare a raccolta i boscaioli delle aree interessate, ci vorrebbero almeno tre anni per abbattere una tal quantità di larici ed abeti.

Carezza – Strada per Passo Costalunga (pagina facebook Rifugi del Trentino)

Le foreste di abeti di risonanza di Paneveggio, del Latemar e della Carnia hanno subito danni impressionanti. Il bellunese è in ginocchio. con comunità che sono rimaste isolate e senza elettricità (la situazione in questa zona è stata ben descritta nel servizio di Diego Bianchi per Propagandalive).

La diga di Comelico, nel servizio andato in onda su Propagandalive

Sul sito DolomitiMeteo è stato pubblicato un articolo nel quale vengono esposte le modalità con cui si è formato questo ciclone, e i dati (impressionanti) relativi alle velocità di picco raggiunte dalle raffiche di vento:

128km/h Passo Valles

148km/h Capo Carbonara (Sardegna)

155km/h colle di Cadibona (Savona)

180km/h Marina di Loano

200km/h Monte Rest (Prealpi carniche)

204km/h Monte gomito (Appennino Tosco-Emiliano)

E, nei giorni successivi, altri disastri in altre regioni. La Sicilia, soprattutto.

Boccadasse, 01/07/2018

Spiaggia di Boccadasse, dopo la tempesta (fonte: ilsussidiario.net)

Ma questa natura “cattiva” non è così per un castigo divino. E’ così perché sta reagendo ai cambiamenti in atto.

Ed è semplicemente colpa nostra.

Colpa dei nostri governi che inseguono l’interesse immediato, di bottega, alla caccia di un ritorno elettorale, senza curarsi degli effetti di lungo termine delle scelte scellerate fatte nel tempo.

Colpa loro che scaricano le responsabilità sugli altri, e la definizione di “ambientalista da salotto” fa particolarmente incazzare se arriva da una componente politica che, avendo governato per vent’anni alcuni dei territori devastati, deve trovare un capro espiatorio, omettendo di dire che i suoi rappresentanti in UE hanno addirittura votato contro il recepimento di quanto stabilito con la COP21.

Colpa dei Governi che si sono via via avvicendati se i soldi per manutenzione del territorio sono insufficienti e vengono spesi male, se somme ingenti vengono spese per coccolare le società che operano nel campo delle fonti fossili, invece di investirle in un serio piano di riconversione radicale dell’economia (che porterebbe pure un sacco di lavoro). Colpa loro se si fanno condoni periodici, se mancano le somme necessarie alle demolizioni degli edifici abusivi, se gli amministratori locali, che si trovano ad operare sul territorio fra minacce e ricatti, sono senza un adeguato sostegno da parte dello Stato.

Colpa nostra che non chiediamo conto di tutto ciò.

Colpa nostra che non ci incazziamo perché siamo pigri, perché basta che abbiamo quello che ci serve (e anche quello che non ci serve), perché basta che non vengano toccati i nostri piccoli interessi di bottega, e il resto chissenefrega.

Colpa nostra che non abbiamo la voglia di scendere in piazza a far casino per tutelare ciò che deve sopravvivere a noi, e che andrà abitato dai nostri figli e nipoti. Colpa nostra che, con le nostre azioni quotidiane, siamo i primi a minare gli equilibri della natura.

I cambiamenti climatici sono in atto, lo sfruttamento del territorio è arrivato a livelli improponibili. Abbiamo ancora poco tempo per intervenire.

Dobbiamo intervenire subito.

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55 anni dopo

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.

Dino Buzzati – Corriere della Sera, 11/10/1963

Sono passati 55 anni, e non è che abbiamo imparato molto, di questo disastro che non è proprio naturale naturale…

Questa storia è stata magistralmente raccontata da Marco Paolini, che si è girato l’Italia fra teatri e università, perché la memoria è fondamentale, per non rifare gli stessi errori. E il 9/10/1997 ha portato la sua orazione civile su, ai piedi della frana.

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Natura morta in ambiente agricolo

(Plastica e altri materiali su acqua ad uso irriguo)

Il Naviglio Civico fra le Tombe Morte e Mirabello Ciria

E niente.

Non ce la possiamo fare.

Continuiamo a fregarcene, a lasciare schifezze in giro, quel tipo di schifezze che non si degradano col tempo, non rientrano nel ciclo alimentare, o perlomeno non da noi.

Lo fanno quando, trascinate dalla corrente di fossi, rogge, fiumi, raggiungono il mare. E lì, oltre ad insozzare le spiagge, finiscono nello stomaco di pesci ed altri animali, causandone la morte, o finendo nel nostro piatto, quando i pesci vengono pescati e finiscono sul bancone del mercato.

E magari, quanto siamo in giro, ci incazziamo pure se troviamo sporco, senza pensare che anche ciò che lasciamo in giro noi, o che buttiamo in un sacco che poi non viene smaltito correttamente, finisce prima o poi in qualche fosso, su qualche spiaggia.

Mettiamola al bando, sta cazzo di plastica. Piantiamola con l’uso e abuso di oggetti usa e getta, e se li utilizziamo, curiamoci che si tratti di prodotti ecocompatibili, e interpretiamo correttamente il “getta”, nella differenziata e non nel prato.

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8a Discesa del Po

Percorsi in bicicletta prevalentemente sugli argini del Po, percorso sul fiume con qualsiasi tipo di imbarcazione.

E’ richiesta l’iscrizione, possibile iscriversi alla partenza, quota minima contributo € 2,00 (due). A tutti i partecipanti verrà consegnata una spilla come ricordo dell’evento.

Prenotazioni imbarcazioni turistiche inviando mail a persona.ambiente@libero.it indicando nome e cognome dei partecipanti e recapito telefonico, oppure telefonando al 340.0003867 (Tiziano) oppure 333.7622768 (Damiano)

L’evento è preceduto il giorno MERCOLEDI 5 settembre da un breve convegno sulla motonave stradivari ormeggiata a Boretto (RE) dal tema “POnti: quale futuro per il Territorio?”
Relatori prime adesioni: Agapito Ludovici -WWF Lombardia- “Cosa passa sotto i ponti” qualità delle acque ed opere infrastrutturali.

Per informazioni e programma:

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La forma dell’acqua

“Che fai?” gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una domanda. “Qual è la forma dell’acqua?”. “Ma l’acqua non ha forma!” dissi ridendo: “Piglia la forma che le viene data”.

Andrea Camilleri “La forma dell’acqua” – Sellerio editore, 1994

L’acqua non ha forma.

Ma cosa succede se l’acqua è troppa per la forma che generalmente la contiene, e se questa forma non è fissa, ma può mutare?

Il 3 luglio in Val di Fassa (e in altre zone del Trentino) si sono verificati fortissimi temporali, ma nella zona di Moena la natura si è accanita in modo estremamente intenso, causando numerose frane e l’esondazione del torrente Costalunga. Le immagini radar della Protezione Civile del Trentino hanno evidenziato una zona circolare con un raggio di 6 chilometri centrato sull’abitato di Moena, in cui si sono concentrate le precipitazioni dalle ore 14 alle 18, con circa 130 millimetri di pioggia. Ci sarebbe, prima di tutto, da chiedersi quanto ci sia di veramente “naturale” in fenomeni così estremi e sempre più frequenti, e quanto c’entrino le conseguenze delle attività umane con le modifiche, sempre più evidenti, subite dal ciclo delle stagioni… ma, per il momento, passiamo oltre…

Una tale quantità d’acqua prende al forma che sta al di fuori del contenitore abituale, ne stravolge la forma, modifica ciò che sta intorno. Si crea nuovi “contenitori provvisori”, a volte.

Mentre girando per Moena puoi non cogliere i segni visibili di ciò che è successo poco più di un mese fa, appena metti il naso fuori dal centro abitato te ne accorgi, che qualcosa è successo. Sulla strada per Passo San Pellegrino è attivo un cantiere, nei pressi di Malga Roncac, spostata di lato alla strada, c’è ancora una transenna con il cartello di divieto di transito su una forestale che scavalca il Rio Costalunga.

Lunedì mi sono imbattuta nelle conseguenze concrete di questi fenomeni “naturali”. Anche se minacciava pioggia, sono partita per andare a Passo San Pellegrino via sterrato, percorso che ho fatto più volte (ne ho parlato, ad esempio, nel post dedicato a Fuciade, e rientra anche nel percorso ad anello attraverso i Monzoni, che non ho ancora avuto il tempo di mettere nero su bianco).

Dopo essere passata dietro la partenza della funivia del Lusia, ho seguito la strada in destra torrente fino al punto in cui la statale passa sopra al torrente. Qui si percorre in discesa il ponte e si riprende lo sterrato sul lato opposto della valle. Qui ho trovato affisso il cartello con l’ordinanza di chiusura di una forestale che transita a monte di Moena, ma, dato che non riguardava la strada che dovevo percorrere io, sono andata avanti.

Non è che poi la mia escursione sia proseguita molto oltre quel cartello… Appena la forestale è diventata un po’ più ripida, i segni del passaggio dell’acqua si sono fatti via via più marcati. L’ottimo fondo della forestale è stato totalmente rimaneggiato dalla furia dell’acqua, che ha asportato il fine, smosso ciottoli, scoperto il substrato roccioso e scavato solchi profondi una spanna.

Io ho provato a proseguire per un po’, in parte pedalando, ma con la difficoltà a seguire una traiettoria senza infilare la ruota in una buca. Ho spinto la bici per un tratto, poi mi sono arresa e sono tornata indietro, perché non l’ho trovato per nulla divertente.

Ho saputo poi che la forestale chiusa, citata nell’ordinanza, è franata per un tratto, e richiede interventi di ripristino.

Ecco, forse la prossima volta che ci saranno danni da maltempo sarà opportuno fare una visitina all’ufficio turistico, prima di pianificare le escursioni…

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Indebitati con la Terra

Provate ad immaginare se, ogni mese, voi spendeste il 70% in più del vostro stipendio, tredicesima e quattordicesima comprese.

Potreste reggere qualche mese, poi comincerebbero a pignorarvi l’auto, la TV…

Ecco, il pianeta Terra non può pignorarci l’auto. O lo smartphone i-minchia. Magari, potesse…

Ecco, ieri noi abbiamo finito di consumare ciò che la Terra è in grado di rigenerare nell’arco dell’anno. E abbiamo cominciato a vivere andando “in prestito” di ciò che non si può rigenerare, e che quindi non potremo tecnicamente restituire.

Riporto qui un grafico relativo all’andamento negli anno del cosiddetto “Earth overshoot day”

Faccio una considerazione: la data calcolata è un valore globale. Come siamo messi noi in Italia? Malissimo. Se fossero tutti come noi, ogni anno servirebbero 2,6 pianeti come la Terra.

Riporto qui qualche articolo sul tema, e il link al sito dell’organizzazione internazionale che si occupa di queste tematiche. Meditate, gente…

https://oggiscienza.it/2018/08/01/earth-overshoot-day-2018/

https://www.overshootday.org/

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La montagna insozzata

Sono passati ormai 28 anni dall’iniziativa Free K2 lanciata da Mountain Wilderness, ma a quanto pare l’inciviltà continua a regnare sovrana

Addio montagna immacolata, l’allarme sull’Everest: “E’ diventato una discarica”

Sul tetto del mondo la Cina ha recuperato 8,5 tonnellate di spazzatura, ma il via vai dei turisti continua a lasciare tracce. In buona parte plastica e residui lasciati da alpinisti incivili

Nella foto, scattata il 21 maggio, i rifiuti lasciati al campo 4 sull’Everest (afp)

di Giacomo Talignani – reubblica.it, 18/06/2018

UNA montagna di spazzatura. E’ triste dirlo, ma da tempo l’Everest ha perso il suo fascino di montagna immacolata e, soprattutto a causa delle spedizioni commerciali, oggi è sempre più ricoperta da rifiuti umani. Ad aprile, riporta il Global Times, la Cina in un tentativo di pulizia ha recuperato 8,5 tonnellate di rifiuti da quella che è considerata la vetta più alta del mondo.

Purtroppo, sottolineano le squadre intervenute sul luogo, buona parte di questi detriti è composto da plastica e feci umane. Da quando la grande montagna è diventata sempre più accessibile anche per il turismo di massa, che si trasforma in spedizioni dove spesso non si rispettano le regole del campo base, l’Everest si è infatti trasformato in una discarica all’aria aperta dove senza alcuna remora migliaia di persone, ogni giorno, si lasciano indietro immondizia, oltre a fare i loro bisogni. Rifiuti che, fanno notare gli himalayani, a causa delle temperature e dei ghiacciai restano a lungo presenti lungo i cammini verso la cima a 8.848 metri.

La squadra intervenuta per ripulire la montagna tra Tibet e Nepal, composta da trenta persone, ha ripulito circa 5,2 tonnellate di rifiuti domestici: 2,3 erano composte da feci umane. Una raccolta che, tra l’altro, è difficilissima anche per gli addetti ai lavori dato che devono affrontare altitudini elevate, carenza di ossigeno e percorsi complessi.

Inoltre, a contribuire allo scempio, ci si è messo anche il riscaldamento globale che sciogliendo parte dei ghiacciai ha liberato la spazzatura lasciata dagli scalatori per decenni. Nepal, India e Cina si dicono preoccupate dall’inquinamento dell’Everest e, oltre ad iniziative per ripulire l’aria inquinata, l’acqua e e il suolo contaminato, stanno studiando strategie per arginare lo spiacevole fenomeno. I cinesi, dicono i media locali, a breve dovrebbero realizzare più bagni pubblici e servizi igienici lungo la rotta. I tibetani invece sono impegnati in diversi percorsi di bonifica da completare entro il 2020.

Ma a preoccupare non sono solo i rifuiti umani: l’abbandono diverso materiale che inquina quotidianamente l’ambiente è sempre più frequente. Si va da pezzi di tende a plastiche, da giubbotti a resti di attrezzatura per le scalate sino a scarti dei contenitori di cibo. Da “la montagna più difficile del mondo” l’Everest è infatti diventato ben presto un luogo dove spedizioni turistiche e gruppi arrivano con sempre più frequenza e spesso sono proprio questi alpinisti meno esperti a contribuire ai danni. “È disgustoso, un pugno nell’occhio. La montagna ospita tonnellate di rifiuti”, ha detto all’Afp Pemba Dorje, sherpa che ha raggiunto la vetta dell’Everest per ben diciotto volte.

Già nel 2012 i rifiuti (non organici) erano così tanti che gli artisti nepalesi hanno perfino prodotto sculture con tonnellate di detriti. I primi dati del 2018 sulle presenze, inoltre, non fanno che rafforzare il volume delle preoccupazioni: sono ben 600 gli scalatori giunti sull’Everest nei primi sei mesi dell’anno spesso grazie a tour low cost.

Per arginare le inciviltà al momento le autorità hanno anche imposto (quelle nepalesi) un deposito cauzionale di 4mila dollari per ogni team di scalatori, rimborsato se ogni scalatore del gruppo riporta alla base almeno 8 chilogrammi di rifiuti. Dalla parte tibetana stesso obbligo, ma al posto del deposito c’è una multa da 100 dollari per ogni chilo di spazzatura non riportato indietro. Con le spedizioni decisamente costose, in molti giudicano questa multa come irrisoria.

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