storia

Cremona, Pedalata Resistente

pedalata resistente 19

Giovedì 25 aprile 2019 l’ARCI di Cremona festeggerà l’anniversario della Liberazione con una “biciclettata resistente” attraverso i quartieri della città, con partenza dalla Casa dell’Accoglienza e arrivo al Parco al Po.

Per informazioni visitate la pagina dell’evento facebook dedicato

Aderiscono all’iniziativa:

Acli Cremona
ANPI Provincia di Cremona
Auser Unipop Cremona
Caritas Cremonese
Cgil Cremona
Lagaredesgars
Nonsolonoi
Pedalando Faticando
Rete Donne Se Non Ora Quando? – Cremona
Tavola della Pace di Cremona
Uisp Cremona

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Gino il giusto

In occasione della Giornata della Memoria, il Comune di Bonemerse (CR) ricorda Gino Bartali.

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Un grande tra i Giusti

Evento facebook QUI

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Le ragazze del 43 e la bicicletta

uisp.it, 13/05/2015

Le ragazze del ’43 e la bicicletta” è il documentario realizzato da Uisp e Udi in occasione del 70° della Liberazione. Il video racconta il contributo decisivo delle donne alla Resistenza e in modo particolare quello dei Gruppi di difesa della donna e delle staffette partigiane. L’Uisp sceglie la bicicletta come simbolo della Liberazione per celebrare il ruolo fondamentale giocato dalle Staffette partigiane durante la Resistenza. La bici è, inoltre, un esempio di Liberazione da un modello di mobilità urbana insostenibile.

Le donne nella Resistenza erano in gran parte giovani e giovanissime e per il loro impegno hanno usato i mezzi semplici e poveri che avevano a disposizione, come la bicicletta. Questa, proibita come pericolosa dai nazisti, rimane il simbolo dell’impegno di una nuova generazione di uomini e di donne per la libertà del nostro paese e aiuta a comprendere il coraggio e la generosità di quella storia.

Il documentario, della durata di 30′, racconta, attraverso immagini e le testimonianze di Marisa Rodano, Lidia Menapace, Luciana Romoli e Tina Costa, quelle straordinarie pagine della Resistenza italiana, scritte anche con l’uso della bicicletta. Il video è stato ideato da Vittoria Tola e Raffaella Chiodo, che hanno curato e realizzato le interviste, mentre la regia e il montaggio sono firmati da Francesca Spanò.

Ecco alcuni stralci delle interviste alle quattro partigiane: “La bicicletta in quegli anni serviva per scappare, per questo i nazisti la vietarono a Roma durante l’occupazione, con un editto del 1943. La stessa cosa avvenne in altre città italiane, ha detto Marisa Rodano, classe 1921, parlamentare italiana ed europea che ebbe un ruolo attivo nella lotta partigiana a Roma.

“La maestra un giorno ci disse che saremmo dovuti andare tutti vestiti da figli della lupa e piccole italiane e a me l’idea piaceva molto. Mia madre quel giorno mi disse: ‘qui c’è poco da mangiare, vai a cercare la lupa e fatti dare da mangiare, perché anche per lei non ne abbiamo’. Credo di aver fatto la mia scelta quel momento, anche guidata da una famiglia di antifascisti”. Queste le parole di Tina Costa.

Luciana Romoli, ci ha raccontato il suo primo atto di ribellione, nel 1938: “Appartenevo ad una famiglia di antifascisti, mia madre addormentava le mie sorelle con canzoni sovversive. Nel 1938 quando facevo la terza elementare sono stata espulsa da tutte le scuole del regno perché ho difeso la mia compagna di banco ebrea”.

“Dopo l’8 settembre mio padre viene preso e portato in un campo di concentramento, noi siamo sfollati ma mia sorella e io in bicicletta tutte le mattine scendiamo a Torino per andare a scuola. Una volta mentre scendiamo due ragazzi in borghese ma col moschetto ci fermano e ci chiedono ‘Da che parte state?’ Io rispondo che sto contro quelli che hanno portato via mio padre, allora ci propongono di aiutarli a portare messaggi a Novara. Così sono diventata staffetta, usando la bici che era il mezzo di comunicazione più popolare”, così Lidia Menapace racconta il suo ingresso tra le staffette partigiane.

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La Bianchi del Campionissimo

Un selfie con la bicicletta di Coppi per entrare nella storia dello sport

Alessandria, da domani al museo esposta la Bianchi del campione

La «Bianchi» sulla quale Coppi vinse Giro e Tour del 1949 (da sinistra Roberto Livraghi, il collezionista Gianfranco Trevisan con la compagna Dorina)

di Valentina Frezzato – lastampa.it, 16/01/2018

Quel telaio carta da zucchero, il manubrio che la trasforma in un ariete e la borraccia argentata, ben salda davanti. Linee che hanno fatto l’epopea del ciclismo. Qualcuno, fortunato, ha assistito a quelle imprese epiche: su questa bici Fausto Coppi vinse tutto. Era il 1949 e l’inseparabile Bianchi lo portò sulla vetta (vera e del podio) del Giro d’Italia e del Tour de France. Pedivelle e raggi leggendari che, da domani, verranno esposti in un museo, ma solo per tre mesi.

Il collezionista Gianfranco Trevisan l’ha prestata («scortata» da Padova, da dove è venuto con la compagna Dorina qualche giorno fa) al Museo «Acdb-Alessandria Città delle biciclette», nato da pochi mesi e già «in volata», perché iniziative e ospiti saranno davvero tante in questo primo anno di vita. La bicicletta sarà al «suo» posto dalla settimana prossima, nella sala dedicata a Fausto Coppi, dove fino a due settimane fa è stata ospite anche l’ultima bicicletta del Campionissimo, utilizzata al Trofeo Baracchi del 4 novembre 1959.

La storia

La Bianchi di dieci anni prima è stata completamente restaurata, ma per chi sa notare i dettagli, ecco quella «sbeccatura» che indica una caduta, probabilmente la famosa della quinta tappa, Rouen-Saint Malo, che non fermò il Campionissimo. Anzi, probabilmente gli donò grinta.

Il Museo «Alessandria Città delle biciclette» (a Palazzo Monferrato in via San Lorenzo) partecipa alla «Giornata dei selfie nei musei» con un’apertura straordinaria, domani: «Il selfie può assumere un significato diverso se incontra l’arte, perché la forma di autoscatto contemporanea può diventare mezzo di divulgazione del patrimonio artistico e culturale» è l’obiettivo del «Museum Selfie Day». Da «Acdb» si potrà immortalare anche la Bianchi, la bici della fuga epica nella tappa Cuneo-Pinerolo che con Coppi «uomo solo al comando», che staccò il secondo di ben dodici minuti. «Quella fuga – ricorda Roberto Livraghi, segretario della Camera di commercio di Alessandria, l’ente che a cui si deve l’allestimento del museo – è componente fondamentale di un mito che non dà segni di usura e che, anzi, avvicinandosi l’anno del centenario della nascita, cioè il 2019, sembra diventare di giorno in giorno più affascinante».

Il record

Sempre domani, arriverà la Legnano usata da Coppi nel 1942, quando stabilì il record dell’ora al Vigorelli; un prestito a sorpresa del Museo del ciclismo Madonna del Ghisallo di Magreglio. Un altro paragrafo importante in questo racconto su due ruote. Dalle 18 ci saranno anche Paolo Tullini e Paolo Amadori, autori di «Le bici di Coppi», uscito con una seconda edizione nel 2017, dopo il ritrovamento di due bici del Campionissimo, tra cui quella che Faustino Coppi ha lasciato in prestito ad «AcdB» fino a qualche giorno fa, ora esposta al Museo dei Campionissimi di Novi Ligure. Fra i primi a visitare il museo di Alessandria, il giorno dell’inaugurazione, c’era Davide Cassani, ct della nazionale di ciclismo, che così ha sentenziato: «Qui si entra nella storia dello sport e del ciclismo». E, da oggi, nel mito di Coppi.

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Le bici di Felice

Felice Gimondi: “La mia prima bicicletta da corsa, comprata per un sacco di sabbia”

Il rapporto dei campioni con le due ruote: «Ma oggi la strada è rischiosa, meglio la mountain bike»

Felice Gimondi al Giro d’Italia che vinse nel 1967 (Foto: ArchiviFarabola)

di Giorgio Viberti – lastampa.it, 31/07/2017

Felice Gimondi è stato uno dei più grandi corridori di tutti i tempi. Nato a Sedrina (Bergamo) il 29 settembre 1942, dopo una brillante carriera dilettantistica passò professionista nel 1965 e subito vinse il Tour de France. In 14 anni di carriera ai massimi livelli ha ottenuto 81 vittorie, fra le quali tre Giri d’Italia, una Vuelta di Spagna, un Mondiale, due Campionati italiani, un Lombardia, una Milano-Sanremo e una Parigi-Roubaix. Insomma, uno che di ciclismo e di biciclette se ne intende.

Gimondi, si ricorda ancora la sua prima bicicletta?

«Certo, era un’Ardita rossa, un regalo di mio padre perché ero stato promosso alle elementari, avevo sette o otto anni. Ero così contento che la inforcai subito per farmi un giro, ma caddi e mi ruppi un dente. Non un buon inizio».

E quando arrivò la prima bici da corsa?

«A 16 anni dissi a mio padre che avrei voluto correre, ma in casa c’erano pochi soldi».

E allora come andò?

«Papà, che era appassionato di ciclismo e in gioventù aveva corso, lavorava come trasportatore e un giorno doveva portare un carico di sabbia a un cliente che non pagava mai. “Se stavolta mi paga, ti compro la bici” mi disse. Andò bene, perché quel giorno il cliente saldò i debiti. Era destino».

E suo padre mantenne la promessa?

«Certo. Con quei soldi, circa 30 mila lire, comprammo una bici usata. Ero talmente felice che lasciai gli zoccoli in mano a mio padre, saltai in sella e pedalai a piedi nudi fino a casa. All’inizio non arrivavo nemmeno ai pedali e allora mettevo una gamba di traverso in mezzo ai tubi del telaio per poter pedalare».

Ma allora lei andava anche su un’altra bici, di sua madre.

«Certo. Spesso sostituivo mia madre che faceva la postina a Sedrina, il nostro paese. Allora la Valle Brembana era magnifica, pedalavo su e giù per le strade sterrate per recapitare buste e pacchi. Diventarono la mia palestra».

Era una bici da donna?

«Sì, ma mi andava bene lo stesso. Se mai il problema era il telaio pesantissimo, 15-20 chili, in ferro, col portapacchi. Che fatica quando cercavo un po’ di velocità».

Pensare che oggi le bici pesano meno di 7 kg. Che ne pensa dell’idea della Federciclismo mondiale di abolire il limite minimo di peso per le bici dei professionisti, che oggi è 6,8 kg?

«Che sarebbe un errore, perché bici troppo leggere diventerebbero molto pericolose, soprattutto in discesa».

Ricorda la bici della sua prima corsa?

«In verità non la potei nemmeno usare. Era una gara a Treviglio, vicino a Bergamo. Eravamo in tre e andammo alla partenza sul rimorchio del motocarro di mio zio, appoggiati alla cabina per non prendere troppa aria. Durante il viaggio ruzzolai fuori due o tre volte, poi perdemmo la strada. Quando arrivammo era già finito tutto e avevano già tolto lo striscione».

E la bici della sua prima vittoria?

«Eravamo a Celana, nel Bergamasco. Partimmo dal patronato di San Vincenzo, andai in fuga con un compagno e poi rimasi da solo. Vinsi per distacco, a modo mio, perché non ero molto veloce negli sprint».

A 22 anni, nel primo anno da professionista, vinse a sorpresa il Tour de France che non avrebbe nemmeno dovuto correre e nel quale era gregario di Adorni. Ricorda la sua bici di allora?

«Una Chiorda marchiata Magni, col suo colore caratteristico blu-azzurro. Ci vinsi anche la Roubaix e il Lombardia. Poi passai alla Bianchi, alla quale sono ancora legato».

Va ancora in bici?

«Certo, anche se dopo una frattura alle vertebre devo andarci un po’ più cauto».

E che modello ha?

«Ho una bici da corridore che celebra il centenario della Bianchi, ditta per la quale ho anche curato il reparto corse».

Però lei ha fatto nascere una scuola di mountain bike. Ha cambiato specialità?

«Con monsignor Mansueto, il parroco di Almè, e altri amici ho creato un gruppo di ragazzini dagli 8 ai 13 anni per andare in mountain bike nel Parco dei Colli di Bergamo».

Allora è meglio la mountain bike della bici da corsa?

«Adesso vado più spesso in mountain bike, è più sicura, mi dà un contatto più diretto con la natura e incrocio meno auto. La strada è diventata sempre più complicata, le famiglie portano più volentieri i figli a correre fuoristrada, è meno pericoloso e più divertente».

E la bici a motore, la pedalata assistita, l’ha mai usata?

«No, ma trovo che sia stata una bella trovata. Dà la possibilità a tutti di pedalare e restare in salute».

Dicono che la bici a motore sia usata di nascosto anche dai professionisti. Che ne pensa?

«Forse in passato, oggi non credo, ci sono così tanti controlli».

Sempre più corridori o cicloamatori subiscono incidenti stradali? Che cosa si può e si deve fare?

«Darsi una regolata reciproca. Gli automobilisti rispettino di più i ciclisti, ma chi va in bici eviti di andare in pariglia o terziglia. In bici si va uno dietro l’altro. E pedalare».

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Izoard, l’estetica del “grimpeur” fatica, sacrificio, solitudine

Scalare il colle leggendario del ciclismo dove oggi arriva il Tour. Non solo sport ma metafora della vita: le salite sono per gli umili, le discese per i campioni

di Domenico Quirico – lastampa.it, 20/07/2017

Dietro il tornante, in un passaggio aspro della salita dell’Izoard, nella solitudine abbagliante, nel silenzio raschiato appena dallo sfrigolio della catena, mi è apparsa davanti, all’improvviso una panchina, verniciata di verde, il sedile e la spalliera di legno. Forse l’unica in quei venti chilometri di salita. Una vera panchina: solitaria, pigra, malinconica. Di quelle che aspettano, pazienti e deluse, all’ombra di un platano o di una quercia, nella piazzetta di ogni cittadina e di ogni villaggio di Francia. Basterebbe, forse, quella panchina lassù, a duemila metri, sul colle leggendario del ciclismo, per dare testimonianza di una stanca civiltà provinciale, il segno preciso di un ordine antico e nobile che è la Francia. Invece era soltanto un invito al riposo, una segreta tentazione alla fatica del pedalare.

Eppure ero salito agilmente: fino a quel momento… La panchina mi ha fatto cadere addosso la stanchezza all’improvviso, come un cappuccio di lana. No, non sono stanco. Fermarsi vuol dire non ripartire, l’umiliante resa dell’imboccare la discesa del ritorno. Accorcio il rapporto di una unità e con uno sforzo doloroso mi strappo dalla tentazione. La strada monotona si allunga verso il vertice del colle a 2400 metri come un Calvario. Ho deciso di salire l’Izoard «en velò», alla vigilia del Tour, perché scalare le montagne in bicicletta non è solo sport: è un magnifico transito di dannazione dove lo spazio, guadagnato metro dopo metro, superficie dell’essere, ascolta battere il suo cuore, battere il tempo e non ne impallidisce. E la vetta è il punto dove lo spazio afferra il tempo e non lo lascia più fuggire.

La partenza

Per questo son partito presto da Guillestre dove ufficialmente inizia questo lato della salita, per non incontrare il peloton degli altri amatori come me; per ascoltare il silenzio della montagna. E infatti la strada, almeno per un po’, è ancora vuota e deserta.

Addio Guillestre con i tuoi chilometri ingannatori, quasi piani, ora entro nella valle del Guil, una gola stretta tra pareti fosche di roccia in cui in fondo scorre il torrente. E’ un silenzio caldo, un riposo denso di luce, un abbandono pieno di coscienza. La bicicletta, di fronte alle grandi scene della natura, ti offre straordinari impressioni di suono, ti pare di udire le voci del silenzio. Il ciclismo agonizza nelle città, gli appartengono la campagna i monti la provincia gli spazi. Il ciclismo non ha nome nei luoghi consacrati al football e al basket…

Tra loro ho sempre amato il «grimpeur», lo scalatore puro. Uomini piccoli, scuri, agili, febbrili, che sognano la salita come una liberazione, la aspettano, le vanno incontro come per un richiamo definitivo e irrefutabile. La montagna è la loro rivincita di uomini senza carne, di acrobati dell’ascesa. E’ l’unica occasione che hanno per rivoluzionare le gerarchie, i ruoli, le dipendenze della corsa. Se la perdono tornano nani. I belli del ciclismo Anquetil, Kubler, Cipollini soffrono le salite.

Mi è indifferente lo sprinter, brutale e temporaneo. Non mi esalta il passista tuttofare e lo specialista della corsa di un giorno. Hanno colli da torello, taglie da macchina pestasassi. Gli scalatori, Jiménez, Pantani, i colombiani, Trueba, Gaul, Bahamontes, quelli invece sono una specie letteraria.

Lo scalatore puro sa di Zola e di Verga, è dolorosamente verista, sputa sangue per staccare tutti in salita e poi in discesa il passista, pesante, strafottente, in due pedalate lo raggiunge e getta in polvere la sua fatica. Ridiscendere a valle per trovare il traguardo lo annulla, solo restare in altitudine, nell’aria rarefatta gli da forza e vita. Il ciclismo è in questa brutale metafora della vita, della politica, della storia: lo scalatore più del gregario è il vero proletario di questo sport popolare, dannato alla fatica di Sisifo di azzannare le montagne e poi perdere un Giro o un Tour in venti chilometri a cronometro o di discesa.

L’arena

L’Izoard non è la salita più dura del ciclismo, me ne accorgo salendola; ci sono qui intorno pendii più impietosi, erte tremende. Il Galibier per esempio o a un passo, sul versante italiano, il colle dell’Agnello, salita brutale, che ti contorce le mascelle nello spasimo dello sforzo, le labbra arricciate, gli occhi inferociti dalla fatica. Ma l’Izoard è interminabile, ti chiede nascosta capacità di ostinazione, volontà fredda e silenziosa. Perché ti lusinga ti inganna ti attira a sé, facendoti credere che sia facile domarlo, che i suoi pendii in fondo siano lievi. Mentre è lui, sempre lui che fissa il margine tra il difficile e il terribile. Per questo sull’Izoard si sono vinti e persi i Tour. Qui se l’avversario è in crisi diventi spietato, c’è un’aria di arena, di mattanza. Ho visto una foto del ’36: il belga Maes in fuga passa sulla vetta, ha occhi di lupo, la gioia crudele di chi sa che l’avversario sanguina. Il vinto è «le roi René», il francese Vietti. Al traguardo si inventerà un patetico raffreddore per giustificare il distacco. Aveva sbagliato rapporto, pensando di piegare la montagna con le sue leve…

Adesso ho lasciato l’ultimo villaggio, case vuote, silenziose come se fossero disabitate. Eppure ci sono auto e segni di vita. E’ come se gli uomini della montagna si nascondessero in attesa dell’arrivo del Tour di oggi quando la montagna intera sarà folla rumore auto e grida.

I pini fanno ancora un’ombra riposata e densa nel bosco umido e sonoro, pare una immensa grotta. La selva di abeti, attorno alla strada che sale ora con pendenze più forti, è tiepida cordiale e profonda come una donna. Non mi piace alzarmi sui pedali, vorrei sentire sempre il corpo e la bici, in coppia, sgominar l’aria, sbriciolarla con il movimento delle gambe come se fossero cosa sola.

La cavalcata di Bobet

Da qui iniziò, mi pare, nel 1953 la cavalcata di Louison Bobet, l’unico uomo tre volte primo sull’Izoard. Aveva già attaccato sul Vars, che anche oggi ne sarà il prologo faticoso, e aveva cominciato a tirar il collo agli avversari. Ma era sull’Izoard che aveva deciso di piantarli. Quanto bastava per arrivare in vetta con il distacco che l’avrebbe confermato per quello che era: il campione, il dio dei francesi, senza rivali senza nessuno né niente che gli potesse stare dietro. La sola cosa che interessa ai campioni: la folla gli urli le mani le braccia le strade le curve le salite, arrivare dove nessuno arriva e col tempo con cui nessuno riesce a farcela.

L’ho visto Bobet, nei cinegiornali del tempo, salire agile, composto, alzava la testa quel tanto per vedere il varco nel muro di folla, di gendarmi che faceva siepe sulla strada. Non vedeva volti, solo la fila di scarpe e poi di calzoni e sottane. Ha piantato i primi allunghi qui dove la strada dopo la «Maison du roy» svolta a sinistra e la pendenza sale all’otto e all’undici per cento. Allunghi, di curva in curva di rampa in rampa, come chiodi nella carne dei poveri cristi che inseguono, indietro, lenti e gocciolanti sudore come i secchi di una draga.

Ora ci siamo: un attimo di respiro, 500 metri, sulle rampe e sulle svoltate a forcina. E poi è la Casse Déserte. Il paesaggio si fa torvo, la pietraia di grigio calcare pare di ossami, qualche nube si appesantisce sulle cime. Non so perché la retorica degli aedi sportivi la chiama paesaggio lunare: la luna è una terra morta, qui la montagna è ben viva, una vita minerale ma possente, quasi urla una sua esistenza fatta di ghiaie gialle, guglie come altari a misteriose intangibili divinità della montagna. La strada è obliqua, tracciata da uno spillo. La rupe liscia dai due lati sale e scende implacabile, senza appigli.

Il capolavoro di Bartali

Qui fu la corsa capolavoro di Bartali nel ‘38. I suoi rivali erano belgi, Vervaecke e Vuissers, detto il calvo. Sì è vero: le cronache francesi dicono che nell’affanno dell’inseguire i due cadono, bucano. Ma quel che conta sono le pedalate tremende del toscano, li attacca implacabile sul Vars, li finisce sulla Casse Déserte. La banda degli chasseur des Alpes è salita sul colle con gli ottoni, suona a pieni polmoni per l’uomo in azzurro che passa come una tromba di uragano e si getta nella discesa verso Briançon. Ah, les italiens!. Cinque italiani nei primi sei posti! Le squadre sono nazionali, si va al Tour come alla guerra Ancora due anni e su queste montagne scaveranno trincee, si combatteranno battaglie vere… Ecco sono in cima. mantenere il controllo del respiro, trovare il giusto rapporto. Sul colle non c’è nulla, una stele che ricorda i genieri militari che costruirono la strada, qualche transenna per il provvisorio traguardo di oggi che poi sparirà, una baracca in legno che vende l’umile mercanzia dei souvenir ciclistici.

Nelle gazzette sportive la montagna è «domata», «vinta». Retorica. E’ l’Izoard che, se vuole, se tu hai umiltà ti accetta, ti lascia venire a sé.

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Noi & la bici, una storia d’amore

Dalla Cina all’Africa, il compleanno di un’invenzione sempre sospesa tra progresso e rivoluzioni

di Domenico Quirico – lastampa.it, 10/07/2017

In quel tempo in Cina vedevi solo biciclette. Immensi, sterminati, vertiginosi stradoni larghi cento metri, affiancati da case quasi impercettibili; e biciclette, biciclette e qualche autobus strapieno di gente. Tutto il popolo cinese – uomini, donne, operai, contadini, impiegati, soldati – andava in bici a perdita d’occhio verso indistinte e luminose lontananze.

È la prima immagine che mi viene in mente, sempre, quando mi parlano del velocipede: arrivo nella Cina delle Guardie rosse e mi accoglie una rivoluzione a pedali, milioni e milioni di biciclette tutte di fabbricazione cinese. Ovviamente modello unico, senza deviazionismi di classe. Unica concessione, che era però segno dissidente d’amore, le fodere, colorate, di cui bardavano con cura affettuosa le selle.

Erano a loro modo belle, ben rifinite, con sellini di cuoio, fanali e campanelli nichelati. I freni, lo ricordo, erano del modello a bacchetta, tecnicamente antiquato ma più elegante dell’antiestetico filo d’acciaio dei modelli «capitalisti».

Avevano, i cinesi, in più, un loro modo di pedalare: composti, rigidi di spalle, nel completo-uniforme blu, forse alzarsi sui pedali, il movimento che gli scalatori chiamano «andanceuse», era considerato sconveniente, individualistico, borghese.

Modelli austeri

Costavano poco, molto meno delle biciclette italiane, tanto che, nonostante il salario fosse molto basso, ogni operaio e contadino poteva permettersi di comprarla.

Ricordo che per moda, (credo ci entrasse anche un po’ di politica, gauchisme pedalatorio sessantottesco), qualcuno cominciò a importarle in Italia, ma ebbero breve fortuna. Erano scomodissime, pesanti per le nostre strade che spesso si impennano. Mao era già morto ma i protagonisti di quella marxista crociata dei fanciulli salivano in sella nella loro povertà senza ricchezza, sicuri di compiere un atto rivoluzionario. L’austera bicicletta autarchica era il simbolo con il libretto rosso e il fornello a gas nientemeno che del socialismo realizzato: compagni, pedalando abbiamo scavalcato lo scomodo pedaggio della fase piccolo borghese…

La bicicletta dunque… che ci porta dritti non al Tour de France o alla Milano-Sanremo, ma, quietamente, a due secoli di storia. Perché non solo nella Cina degli onerosi Balzi in Avanti la bici ha sempre avuto a che fare con il progresso, la politica, addirittura le rivoluzioni. Che fosse baldanzosamente futurista o spinta dai soldati del generale Giap sul sentiero di Ho-Chi-min, giù giù fino allo snobismo ecologista che la getta come sfida nella impraticabile città delle automobili. C’è la bicicletta con cui l’indomita lettone Annie Kopchovsky, nel 1894, fece il giro del mondo. E la scomodissima Graziella non era forse un manifesto femminista e unisex contro la bici da donna?

Le strade in Congo

Sfogliamo l’album: l’Africa delle biciclette. In Congo la strada era tutta una geometria di larghe pozze di acqua rossastra, dalle ruote del pick-up l’acqua schizzava a fontane, era proiettata sui fusti degli alberi e ogni tanto rami pendenti nel mezzo della strada scudisciavano il tetto della vettura. Sembrava di correre in una galleria allagata, sotto una volta di rami e di foglie.

Chi è in sella

Donne vanno sulla proda della strada, portando sul capo larghe catinelle di ferro e di plastica colme di frutta e polpette di manioca. Appena avvistano l’auto avanzare tra fontane di fanghiglia si mettono in salvo, leste, dietro gli alberi. Poi sbucano i gruppi di ciclisti. Nessuno è in sella: chi poterebbe avanzare in quel fango? Spingono penosamente la bicicletta di lato, estraendola ad ogni metro dalla mota. Perché sulla canna sono caricati immensi scatoloni cesti gerle imballaggi improvvisati.

I ciclisti non possono fuggire, restano immobili, stoicamente, aggrappati al manubrio quasi l’ondata di fango dell’auto potesse portar via i loro carichi preziosi.

I più poveri non hanno neppure biciclette in metallo arrugginite, pesanti, vecchi congegni con cui si erano divertiti un tempo i coloni. Le loro bici sono di legno, anche le ruote, sbozzate da falegnami come fossero aratri o strumenti agricoli, finte biciclette senza pedali e catena, solo le ruote come quelle dei carri. Biciclette trogloditiche per portare pesi. L’astuto Mobutu, dittatore congolese, aveva inventato una specifica tassa per spigolare denaro anche su questo mezzo dei poveri!

Ancora biciclette il cui scopo non era la velocità. Biciclette spinte a mano come un fido compagno di strada verso la fabbrica dagli operai della mia infanzia. Infilata nella canna la cartella da cui spuntava il fiasco di vino e la colazione. Le biciclette che accompagnavano i poveri eroi dei romanzi di Pratolini.

O le biciclette dei parroci di campagna, i parroci alla Bernanos, che avanzano su viottoli polverosi o sbandando sulla neve, portando nella borsa anche loro gli strumenti di lavoro, l’ampolla dell’olio santo, l’acqua benedetta per le benedizioni di Pasqua.

Vite molteplici

Sì, la bicicletta ha avuto molte vite, è di tortuose e ambigue reversibilità, ha cadute e imprevedibili riscatti. Ha impersonato di volta in volta il lavoro, il viaggio, il trasporto, il confort, la velocità, lo sport. Ha resistito al tempo, ancora oggi viva operante, misura ancor valida del peso della vita. In questa arcana resistenza al tempo, in questa ormai secolare refrattarietà alle lusinghe del nuovo, in questa sostanziale incorruttibilità sta il suo incanto. Stéphane Mallarmè, scrivendo sul ciclismo nascente, non avvertiva che «l’uomo non si avvicina impunemente a un meccanismo e non vi si mescola senza perdita»?

Nessun oggetto più di lei dimostra che anche il più quotidiano racchiude una certa ingegnosità, delle scelte, una cultura. Porta con sé un sapere specifico e una certa eccedenza di senso. La bicicletta è in sintesi la continuità tra il materiale e il simbolico, lo sforzo di intelligenza che resta come conservato all’interno di ogni oggetto per semplice che sia, come l’ingranaggio che trasmette il movimento dai pedali alla ruote.

E poi c’è il ciclismo. Oggi fa male parlarne. In mezzo c’è stato il doping, il tempo dei falsari quando tutto era permesso, le bugie, i profitti, le micidiali infusioni.

Ma prima… Prima era il tempo in cui i campioni venivano chiamati per nome, Fausto, Fiorenzo, Learco, Gastone, come persone di famiglia di cui conosciamo le abitudini e i difetti. O con soprannomi bonariamente dannunziani: la littorina, l’aquila di Toledo, il leone delle Fiandre… L’Italia del Giro d’Italia e la Francia del Tour: uomini e paesaggi che fanno ala a una gara in apparenza quasi assurda, in cui atleti spingono un attrezzo bilanciato su due ruote, colando sudore da tutte le membra, lucidi come se fossero spalmati di vaselina. Una festa, un gioco in cui, contro le insidie della vita quotidiana, ciascuno ritrova la propria naturalezza. Un attimo, e rende felici.

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Bartali, l’eroe che salvò quasi mille ebrei dai nazisti

Il 5 maggio 2000 moriva Gino Bartali

www.lefotochehannosegnatounepoca.it, 05/05/2017

I grandi campioni vengono ricordati per le loro imprese sportive, eppure la stella del ciclismo Gino Bartali brilla anche per altruismo e umanità. Lui, che durante le persecuzioni degli ebrei in Italia trasportò all’interno della sua bicicletta documenti falsi per aiutarli ad avere una nuova identità e a sfuggire alla deportazione che li avrebbe portati nei campi di concentramento nazifascisti.

Questa storia nella Storia è venuta fuori soltanto molti anni dopo, perché Bartali ha custodito gelosamente questo segreto in fondo al suo cuore: “Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”, diceva. Il campione italiano è scomparso nel 2000 e la ricostruzione di questa sua grande impresa contro le persecuzioni degli ebrei si è fatta strada pian piano, scavando nella memoria e dando un nome e un volto alle centinaia di persone che con i documenti falsi trasportati all’interno della sua bicicletta da corsa Bartali salvò dalle deportazioni nazifasciste.

Nel 2006 l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì a Gino Bartali la medaglia d’oro al valor civile (postuma) per la sua attività a favore degli ebrei perseguitati durante la Seconda guerra mondiale. E il 23 settembre 2013 è stato dichiarato ‘Giusto tra le nazioni’ dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’Olocausto fondato nel 1953, riconoscimento per i non-ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste.

“Cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa”, questa la motivazione dello Yad Vashem.

Da quando la notizia è stata resa di dominio pubblico, la figura di Gino Bartali – celebre per le sue corse in bicicletta, per l’eterna sfida con il suo amico-rivale Fausto Coppi e per la foto del passaggio della borraccia, è finita in libri, film, documentari che ne hanno ritratto anche l’aspetto più nascosto, raccontando la sua opera di salvataggio.

Qualche anno fa un documentario del regista newyorkese Oren Jacoby “My Italian secret. The Forgotten Heroes”, presentato al Festival del film di Roma nel 2014, racconta anche la sua storia. Il 27 gennaio del 2015 è stato pubblicato il libro di Simone Dini Gandini “La bicicletta di Bartali”, in cui si ricostruiscono anche gli spostamenti che Gino percorreva in sella alla sua bici per trasportare i preziosi documenti da una stamperia clandestina di Assisi fino a Firenze, dove poi venivano consegnati agli ebrei consentendo loro di avere una nuova identità e sfuggire all’orrore.

E una volta ci mancò poco che venisse scoperto, come racconta l’autore del libro in un’intervista rilasciata a RaiNews: “”Nell’autunno del ’43 Bartali venne arrestato dalla polizia fascista: a Firenze c’era il temutissimo comandante Mario Carità, persona crudele e spietata. Venne fermato ma nessuno ispezionò la sua bicicletta: grazie a questa ‘dimenticanza’ il campione si salvò. Ho voluto raccontare la sua storia per fare capire ai giovani lettori che l’eroismo e l’impegno civile esistono veramente”.

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Il Giro che non si corse mai

1915, il Giro che non si corse mai, i miti spazzati via dalla guerra

di Lorenzo Franzetti – cyclemagazine.eu, 24/05/2015

Maggio sa di primavera e di Giro d’Italia, ma quell’anno niente Giro: si partì, certo, non per avventure ciclistiche, ma per il fronte. Era il 1915, in Italia, migliaia di giovanotti mandati a combattere per una Nazione che pochi o nessuno tra loro sapeva bene cosa fosse. Il Giro che non si corse mai, venne soltanto immaginato da molti ragazzi che sognavano glorie in bici, corse epiche che allora erano al limite della follia, se solo si pensa alla corsa dell’anno precedente. Oggi si sprecano parole come “leggenda”, “epica” o altro, a quello era il vero ciclismo eroico. Il Giro d’Italia 1914 fu probabilmente la corsa ciclistica italiana più dura di tutti i tempi, un’avventura che vale un romanzo, una storia incredibile, vinta da Alfonso Calzolari dopo aver superato mille difficoltà. In quell’anno, però, oltreconfine si stava per aprire un conflitto mai visto prima: il Giro si concluse il 7 giugno, il 28 giugno ci fu l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando D’Asburgo, a Sarajevo, un mese dopo scoppiò il conflitto. L’Italia, però, entrò in guerra dieci mesi dopo, il 24 maggio 1915.

E tutto si fermò, in Europa: la vita normale e con essa lo sport. Il ciclismo restò nei sogni di molti ragazzi, tra questi anche corridori: italiani giovani e forti che sembravano indistruttibili in bicicletta, attraversando l’Italia in tappe e gare di trecento o quattrocento chilometri, andavano benissimo nelle forze armate, lassù nelle trincee tra Veneto e Friuli.

Octave Lapize scala per la prima volta il Tourmalet, nel 1910

Una guerra spazzò via la fantasia, ma anche la carriera di grandi campioni: in Italia, per esempio, il ciclismo divenne orfano di Oriani, il vincitore del Giro 1913 e oltre confine le perdite furono altrettanto dolorose. Lucien Georges Mazan, alias Petit Breton, Francois Faber, Octave Lapize: tre miti, i più noti caduti del ciclismo durante la Prima Guerra Mondiale.

Petit Breton, il primo vincitore della Sanremo, con un palmarès da grandissimo del ciclismo: due Tour de France, un record dell’Ora, la Parigi-Bruxelles, la Parigi-Tours. In guerra contava come tutti gli altri, finì in artiglieria e cadde nelle Ardenne, nel 1917: le Ardenne che oggi sono teatro del grande ciclismo, ma che si possono anche considerare un luogo simbolo della Grande Guerra, immenso cimitero di ragazzi in trincea.

Octave Lapize, il primo ciclista a transitare in vetta al Tourmalet (durante il Tour del 1910) vinse un Tour, appunto, ma anche tre Parigi-Roubaix, seigiornista, ma anche pioniere del ciclocross. In Italia vinse una corsa scomparsa da un secolo, la Milano-Varese. Ebbene Lapize, allo scoppio del conflitto, si arruolò volontario nell’aeronautica francese. Da militare fu tra i più coraggiosi piloti, protagonista di azioni davvero coraggiose: morì proprio durante una battaglia aerea, nel 1917.

Faber arruolato nell’esercito francese

Francois Faber, lussemburghese, era il grande rivale di Lapize: «La Francia mi ha dato tanto, è giusto che io la difenda» dichiarò pubblicamente quando nel 1915 dovette interrompere la sua carriera ciclistica. Vinse un Tour de France, ma anche una Parigi-Roubaix e un Giro di Lombardia (1908). E, poi, naturalmente fu protagonista e vincitore nelle classiche che allora erano le più celebrate in Francia, ovvero la Parigi-Bordeaux, la Parigi-Tours e la Parigi-Bruxelles. Era il “Gigante di Colombes”, per la sua stazza robusta, all’opposto di Mazan, il piccolo bretone. Partì per il fronte e fu tra i primi a morire: di lui non si trovò più traccia dopo la battaglia dell’Artois, combattuta il 9 maggio 1915. Tre anni dopo fu ufficialmente dichiarato “morto”.

In pochi tornarono dal fronte e ricominciarono a correre in bicicletta: tra chi riuscì a sopravvivere, salvandosi quasi per miracolo, fu Paul Deman, primo vincitore del Giro delle Fiandre, che scampò alla fucilazione proprio grazie alla sua fama.

Tre miti della Francia ciclistica, tre giganti della storia dello sport europeo e nella loro scia tanti, centinaia, migliaia di giovani atleti e soldati scomparsi senza troppi onori. Il ciclismo ha i suoi lutti, tanti: per questo, la Prima Guerra Mondiale è una pagina triste per il ciclismo mondiale, da non dimenticare.

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