miei trek

Traversata Contrin – San Nicolò

La traversata Alba di Canazei – Pozza di Fassa via Passo San Nicolò è un classico, o meglio… lo era quando ero giovane. Nell’epoca dei social, nella quale gli itinerari sono scelti in base alle foto su Instagram e sui consigli letti nei gruppi Facebook, le due valli, separatamente, sono inserite nelle categorie “escursioni facili per famiglie con bambini” e spesso snobbate da chi mira ad escursioni più corpose, per le quali viene privilegiato l’altro versante della val di Fassa. Invece le due valli possono essere considerate partenza o arrivo di traversate impegnative o giri potenzialmente “epici” e dai paesaggio mozzafiato. La traversata da Alba a Pozza non è difficile ma permette di apprezzare in pieno gli aspetti paesaggisticamente più rilevanti delle due valli, gettando uno sguardo verso le vette circostanti e… attraversando la storia geologica (e non solo) di queste valli.

Noi abbiamo deciso di affrontare il percorso da Alba, per motivi logistici e… “ortopedici”.

Percorso

Con l’autobus ci rechiamo ad Alba di Canazei e scendiamo alla stazione della funivia per Ciampac e Col dei Rossi. La partenza del sentiero è ai margini del bosco, praticamente sotto i cavi della funivia del Ciampac: guardando verso monte, sulla sinistra si trova il segnavia 602.

Si percorre la forestale per la Val Contrin, che inizialmente è pianeggiante ma ben presto svela la sua vera natura: una sequenza di rampe ripide e tornanti. Il “gradino” fra il fondovalle e Baita Locia Contrin, dove inizia la valle pensile, è di circa 250m. Fortunatamente un sentiero un po’ ripido permette di tagliare i tornanti, rendendo più varia la salita e, secondo il mio punto di vista, pure meno faticosa (preferisco di gran lunga un sentiero a una forestale, ma è questione di gusti). Lungo il sentiero è stato allestito un percorso tematico per bambini, con le storie della mucca Ombretta e del suo latte.

Raggiungiamo Baita Locia Contrin abbastanza rapidamente, qui la valle spiana e si procede spediti. Varcando un ampio cancello in legno si entra in un nuovo mondo: davanti noi la Cima di Ombretta, sulla sinistra le incombenti pareti calcaree del Gran Vernel, a destra la dolomia del Colac. In mezzo, una valle verdissima percorsa da un torrente dal greto ampio. Qui è stata recuperata una vecchia calchera, accanto alcuni escursionisti particolarmente creativi ha allestito un esercito di “ometti”, a cui l’esercito di terracotta fa un baffo 🙂 . Alle nostre spalle fa capolino il Gruppo del Sassolungo.

Più avanti, sulla destra, un paletto orfano di cartello indica dove era la partenza del sentiero per la Forcia Neigra, ora chiuso, che consentiva di raggiungere la conca del Ciampac (adesso bisogna passare dal Passo San Nicolò) . Sempre sulla sterrata, si raggiunge il ponte in legno sul Contrin: qui c’è la deviazione che porta direttamente al Passo, noi invece proseguiamo verso il Rifugio Contrin.

Passato il torrente, la strada alterna tratti dolci a strappi più ripidi. Si passa accanto a Baita Cianci, si prosegue ancora per superare le ultime rampe, finché sulla nostra sinistra appare il muro di sostegno del terrapieno su cui sorge il Contrin, con gli ombrelloni rossi (circa 1h50′ dall’inizio della salita, senza correre troppo). Ed è qui che inizia la parte più bella della valle: proprio dietro il rifugio parte il sentiero che porta alla Val Rosalia e al Passo di Ombretta, con la cima innevata della Marmolada che fa capolino dalla forcella. Da qui la maestosità della parete sud si intuisce appena, ma garantisco che trovarsi al cospetto di quei 900m di calcare fa impressione.

I prati dietro al rifugio, salendo verso il Passo di Ombretta, sono il regno delle marmotte. Se invece si prosegue sulla forestale, ad appena 10 minuti c’è la Malga Contrin, dove in passato abbiamo fatto scorta di jogurt fresco. Noi invece, dopo una breve pausa, ritorniamo accanto al rifugio e imbocchiamo il sentiero 608 in direzione Passo San Nicolò (tempo stimato un’ora).

Scendiamo fino al ponticello sul torrente, giunti sull’altra sponda ricominciamo a salire fra prati e sentieri ripidi, con le radici a costruire dei gradini naturali. Verso Est la vista si allarga verso le pareti di Marmolada e Gran Vernel. Guardando verso Nord, invece, balza all’occhio la forma ad U tipica delle valli di origine glaciale, che quasi abbraccia la sagoma del Sassolungo.

Saliamo ancora e usciamo sul pascolo, seguendo un sentiero che prima passa sul ghiaione ai piedi dei Laste de Contrin (da qui si vede anche Cima Uomo) e poi si inerpica in una zona solcata dai solchi di erosione causati dal ruscellamento dell’acqua piovana.

Ed è qui che, mentre ammiriamo il panorama che via via si apre, Ettore mi dice “ma quello che fa?”. Mi volto e vedo un tizio in e-mtb che sale lungo il sentiero. Ok, fin dove è arrivato ora si pedala (anche se sotto deve aver spinto un bel po’), ma già dove siamo noi è improponibile proseguire in sella. Incuriositi, lo lasciamo passare, augurandogli in bocca al lupo: lo avevamo sentito parlare con altri escursionisti, aveva intenzione di scendere in Val San Nicolò. Un po’ spingendo, un po’ sollevando il pesante arnese, procede piuttosto spedito, alla ricerca dei pochi tratti pedalabili. Quando raggiungiamo il tratto più dolce (e col fondo migliore) del sentiero, lui è già avanti.

Attorno a noi, lo spettacolo: ci troviamo su un terrazzino naturale, con il Gruppo del Sella che chiudere la vista verso Nord. Lo sguardo verso Est percorre le pareti del Gran Vernel e della Cima di Ombretta, con la sua conca che un tempo ospitava un nevaio, il tutto poggiante su strati di roccia di base caratterizzati da pieghe ben visibili, che si ripropongono anche lato Val San Nicolò, causando non pochi problemi. Percorriamo l’ultimo tratto di sentiero sostanzialmente pianeggiante che ci porta verso in rifugio, passando accanto accanto ad una mandria di vacche nere… svaccate a ruminare sul prato. Davanti a noi spuntano il Catinaccio, la Roda di Vael, il Latemar in lontananza, mentre ci avviciniamo al passo diventano riconoscibili le cime della Val San Nicolò.

Ed eccoci al rifugio! Sono forse 15 anni che non salgo quassù, ma l’edificio appare sostanzialmente uguale, con l’esterno in legno, le persiane rosse e bianche, la sala da pranzo spaziosa ma raccolta.

Ci sediamo sul prato per mangiare, quasi sulla cresta di sommità. Con lo sguardo verso valle, alla nostra sinistra abbiamo il “corno” del Col Ombert, nel quale sono visibili alcuni rifugi dalla Grande Guerra (altri sono presenti verso Buffaure e Colac, ma oggi non ci passiamo). In pratica, siamo su una specie di terrazza, lato Val San Nicolò il versante scende ripido, mentre verso Contrin sembra quasi un altopiano. Accanto a noi, c’è un signore con un cagnolino, poco in là vediamo il biker che si appresta a scendere. I tavoli esterni sono tutti occupati, mentre dentro al rifugio c’è poca gente. Potenza di settembre, della bella giornata e delle regole anti covid. Cafferino (che ci vuole sempre), bastoncini dimenticati appesi fuori dalla porta da andare a recuperare (questo era meglio evitarlo) e scendiamo.

Il sentiero percorre pianeggiante la cresta del valico, fino al segnale che indica il Passo. Qui si scende a sinistra.. Ops.. Ma non era qui il sentiero? Me lo ricordo bene: in sostanza la zona del passo si trova su un banco di roccia che lato San Nicolò tende a franare, il sentiero era stato ricavato lungo la parete rocciosa (qui da giovane avevo trovato dei fossili) e poi spostato e allargato. E’ però evidente che il sentiero non subisce manutenzione da un bel po’, il nuovo sentiero scende (già da un bel po’) lungo un costone relativamente stabile fra due zone franose e parte poco più avanti, lungo il sentiero che porta verso il Buffaure.

Cominciamo a scendere, su sentiero ripido ma ben tenuto, tutto sommato il biker che abbiamo incontrato durante la salita si sarà divertito! Raccogliendo qua e là qualche piccolo rifiuto o mascherina, raggiungiamo in breve tempo il bosco, mentre comincia a scendere qualche goccia. Il panorama sulla nostra destra è lunare: il versante destro della valle San Nicolò è costituito da ripidi pascoli sormontato a tratti da dolomia e roccia vulcanica, ma accanto a noi c’è un brullo canalone, roccia che pare sfogliarsi a cipolla lungo una piega degli strati di base, i cui frammenti precipitano a valle e vengono trascinati nelle piene. Spesso da queste parti si scatenano violenti temporali, il torrente può gonfiarsi rapidamente e innescare frane, con conseguenze anche drammatiche.

Nella parte bassa del percorso, un tratto del sentiero è franato, il passo si fa un po’ difficoltoso per superare radici, sassi, vuoti e dislivelli, sul morbido terreno scuro del sottobosco. Arriviamo poi a lato del torrente, sul fondovalle, il sentiero si innesta sulla sterrata poco sotto Baita alle Cascate. Percorriamo la strada in discesa, chiacchierando e guardandoci intorno. Io adoro questa valle, questi pascoli punteggiati da baite e fienili mi danno un senso di pace, ma quando vedo certe cose mi incazzo: santo cielo, se ti porti il cane a spasso e raccogli i suoi scarti organici sei persona educata, ma se poi infili il sacchetto in una tana di marmotta sei doppiamente coglione.

A proposito di senso di pace… Questi posti hanno visto cose che con la pace hanno ben poco a che fare: qui durante la grande guerra sorgeva un campo base dell’esercito austriaco. A ricordarlo ci sono cippi, lapidi, pannelli informativi… e alcuni reperti rinvenuti durante la ristrutturazione di una baita. La Val di Fassa era infatti territorio austriaco e il confine correva sulle cime vicine. La Val San Nicolò era il luogo ideale per alimentare la prima linea e i campi in quota, come quello che sorgeva ai piedi di Passo delle Selle. Su queste creste e nelle trincee di confine hanno trovato la morte tantissimi giovani strappati a famiglia e lavoro, o allo studio. Giovani parlanti mille lingue e dialetti, da una parte e dall’altra del confine, che la guerra l’hanno subita o nella quale hanno creduto prima di rendersi conto che essere mandati al macello sotto i colpi del nemico non ha nulla di romantico.

Ci fermiamo a Baita Ciampié per la merenda, per poi affrontare l’ultimo tratto asfaltato fino a Sauch, dove ora c’è la fermata della navetta.

Dati percorso

  • Lunghezza 15km 500m
  • Dislivello positivo 924m
  • Dislivello negativo 640m

Vedi il percorso su Strava

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Lago Aviolo e Passo Gallinera

Un weekend molto corto col figlio, in Val Camonica, alla scoperta della Val Paghera, del Lago Aviolo e del Passo Gallinera. Una bella escursione, peccato che il cielo coperto non ci abbia permesso di apprezzare in pieno il panorama.

Raggiungiamo Vezza d’Oglio il sabato prima di cena. Il padrone di casa (Martino, un tipo sportivo), ci recupera in piazza. Ci mettiamo a chiacchierare, parliamo di sentieri ed escursioni: la mia intenzione iniziale era quella di salire ai laghi d’Avio e, se possibile, al rifugio Garibaldi; lui ci consiglia di salire all’Aviolo perché, dal punto di vista paesaggistico, è meglio dei laghi d’Avio, inoltre la strada per la malga Caldea quest’anno non è in buone condizioni, mentre quella della Val Paghera è tutta asfaltata. Decidiamo di seguire il suo consiglio, rinviando la salita al Garibaldi alla prossima occasione, quando magari potrebbe venire anche il mio compagno. Valutiamo però l’ipotesi di non fermarci al lago, ma di proseguire oltre, fino al passo Gallinera (una delle opzioni che ci aveva prospettato Martino). Diciamo che salire la sera prima per fare una escursione di un paio d’ore non avrebbe molto senso…

La mattina io e Ettore, dopo la colazione al bar in piazza a Vezza, risaliamo in macchina la Val Paghera fino al Rifugio alle cascate. Lasciamo qui il macinino, ci prepariamo ed affrontiamo il percorso. Non riporto la descrizione nel dettaglio perché la si trova sul sito “Sentieri Camuni“, riporto solo alcune impressioni, oltre alle foto scattate nell’occasione.

Il primo tratto di sentiero, fino al lago, non è un sentiero. È una scalinata. No, non sto scherzando: sono gradini ricavati nella roccia, o spostando e sistemando massi. Qui ci salgono anche persone non giovanissime, o bambini con i genitori, ma non è un percorso agevole, soprattutto la discesa. Le mie ginocchia malandate hanno sofferto parecchio ma hanno retto, però ho visto parecchie persone patire parecchio in discesa. Qualcuna per difficoltà fisiche… Altre (e mi spiace sottolinearlo) a causa di una pessima scelta di scarpe.

Nella parte alta del percorso c’è un tratto di catena per tenersi. In condizioni normali è pressoché inutile, ma si tratta di un punto nel quale gocciola un po’ d’acqua dalle rocce sovrastanti e in caso di pioggia potrebbe essere scivoloso.

Più sopra sono presenti un paio di passerelle di legno e acciaio che consentono di “aggirare” alcune rocce, ma nulla di tecnicamente complicato o esposto.

Si giunge sulla spianata dove sorge il Rifugio Occhi, poco oltre si giunge al lago Aviolo: il cielo parzialmente nuvoloso non permette, purtroppo, di cogliere tutte le sfumature di verde dell’acqua di questo piccolo gioiellino, trattenuta da un basso sbarramento. Questo era uno dei luoghi delle gite estive di mia madre, che ha passato le sue estati da ragazza a Vezza d’Oglio, sentito molte volte nei suoi racconti: il lago, il Baitone… La val Paghera fatta al ritorno con in spalla il fratellino. E pure il Passo del Gallinera, verso il quale ci dirigiamo costeggiando il lago.

In questo punto della valle le pareti rocciose sono piuttosto ripide, sulla nostra sinistra sono state tracciate delle vie di arrampicata. Giunti al termine dell’invaso troviamo una piana erbosa, punteggiata da fiori che sembrano batuffoli di cotone, sulla quale pascolano alcune mucche. Ma come caspita sono salite fino qui?

La cosa che però ci colpisce è l’acqua del ruscello: limpidissima, al punto che si fatica a valutarne la profondità. Mossi da curiosità, facciamo una misurazione sperimentale usando uno dei miei bastoncini, in un punto nel quale la presenza di un grosso masso accelera la corrente: c’è circa mezzo metro d’acqua trasparente.

A chiudere la conca, troviamo il Corno del Baitone (Gruppo dell’Adamello), con quel che resta del suo ghiacciaio. Salendo il ripido sentiero sulla destra notiamo sfumature rosate sui nevai residui: depositi di sabbia del Sahara, portata qui dai venti, o un microorganismo che si sta diffondendo sulle Alpi, aumentando ulteriormente la velocità di scioglimento del ghiaccio? Già, perché sembra poca cosa, ma ghiaccio più scuro significa maggior assorbimento dei raggi solari.

La salita è piuttosto ripida, l’ambiente è selvaggio. Sulla nostra destra, Ettore scorge un camoscio in lontananza. La bestia ci fissa, poi si rimette tranquillamente in marcia, e mentre io recupero la reflex per tentare una foto con lo zoom, scompare dalla nostra vista.

Avvicinandoci al passo si alza un vento freddo e fastidioso. Raggiunta la sella si apre davanti a noi la vista verso la val Camonica: sotto di noi si scorge l’abitato di Malonno, più a destra c’è Edolo e da qui si vede bene la vallata che porta verso l’Aprica. Il sentiero che scende verso Edolo sembra bello ripido e il dislivello è notevole… Insomma, da queste parti le escursioni facili sono merce rarissima e le tempistiche di percorrenza indicate sulla cartellonistica non sono affatto generose.

Ci spostiamo sulla sinistra fino al Bivacco Festa, dove ci accampiamo per un veloce panino prima di scendere.

Dati percorso

  • Dislivello: +940m
  • Tempo salita: circa 2h45′ (anche qualcosa di più)
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Anello Col Raiser – Seceda

Una splendida giornata di sole, da non sprecare in nessun modo. Ne salta fuori un regalo di promozione per il mio giovane padawan: una escursione al Seceda, da cui si può ammirare uno splendido panorama a 360° su Dolomiti, Adamello, montagne austriache. Merita, anche per chi cammina poco (e prende la scorciatoia).

Mappa dell’area, sono evidenziati i principali punti di passaggio

Il giorno della pubblicazione dei tabelloni avevamo in programma la sperimentazione della E-MTB, ma il senior di casa stava poco bene, quindi decidiamo al volo di riconvertire la splendida giornata in chiave escursionistica. Il giovane però sembra riluttante a mettersi in moto…

E niente, prima vuol vedere la pagella.

Solo dopo aver scorso soddisfatto i voti sul computer e aver constatato “di pirsona, pirsonalmente” di essere stato promosso in seconda media, ci prepariamo ed usciamo. Destinazione: Seceda.

Ci dirigiamo a piedi verso Santa Cristina, percorrendo Streda de la Tieja e poi seguendo i cartelli per la stazione di valle della cabinovia Col Raiser.

L’itinerario

Le navicelle dell’impianto percorrono lente la valle a monte di Santa Cristina, sede del comprensorio sciistico Col Raiser-Seceda. La valle, con esposizione Sud, all’altezza di Pian de La Tieja, è piuttosto stretta, ma risalendo sopra pascoli e baite, si apre a ventaglio: verde e bellissima dai prati di Seceda a Col Raiser, più ad Est diventa un pochino più selvaggia arrivando al corso del torrente principale e alla zona del rifugio Firenze. Dietro, a far da cornice, le Odle, mentre guardando verso Est si erge imponente lo Stevia, con ancora parecchia neve nei canaloni che scendono a valle.

La conformazione dei versanti, che rende particolarmente “fotogeniche” queste vette, ha una origine prettamente geologica: gli strati di base, un tempo fondali marini su cui sono nati gli atolli corallini che hanno originato le dolomiti, sono inclinati verso sud e l’erosione ha fatto il resto: pascoli ondulati verso Gardena, che sul Seceda sembrano portare direttamente verso il cielo, ripide pareti tendenti a sgretolarsi verso Nord, dove c’è la Val di Funes. Il banco di dolomia dello Stevia, che si erge massiccio a chiudere la quinta verso oriente, è in sostanza una specie di altopiano i cui bordi settentrionali e occidentali si sgretolando, rendendolo accessibile agli escursionisti. E poi ci sono i “denti” delle Odle, che, pur dando il meglio lato Funes, anche verso Gardena svettano verso il cielo blu, in un certo senso materializzano i colori della bandiera ladina.

Sbarchiamo a Col Raiser, in un posto che è contemporaneamente stazione cabinovia, negozio per turisti, punto di ristoro con terrazza panoramica e hotel. È punto nevralgico per la pratica degli sport invernali, ma anche per le escursioni. Nel nostro caso, si tratta di un percorso ad anello da percorrere in senso orario, che ci porta al Seceda e da qui a camminare ai piedi della Fermeda fino a Malga Pieralongia, già meta di una escursione alcuni anni orsono, per poi far rientro a Col Raiser.

Ci avviamo lungo una forestale che, mantenendosi in quota, si dirige verso Nord. Ignoriamo le deviazioni per il Rifugio Firenze (segnavia n°2) e per Malga Pieralongia (4a), il nostro itinerario di salita prevede un primo tratto sul sentiero n°2, per poi svoltare a destra, poco prima del Rifugio Fermeda, sul n°1A, il passaggio per Baita Daniel. Successivamente, dovremo svoltare ancora a destra sul n°6, seguendo le indicazioni per Baita Sofie e Seceda.

La pacchia del sentiero in piano non dura molto, in fondo i punti citati sono lungo piste da sci, e ben sappiamo come sono le sterrate di servizio: ripide e con tratti pavimentati per non far slittare le ruote della jeep. Avranno pur effetto tonificante sui glutei, ma spaccano un pochino le gambe. Questo è l’unico difetto, perché il paesaggio è idilliaco: è un susseguirsi di pascoli, baite, laghetti, minuscole chiesette, sotto un cielo blu e terso. Il tutto, con una splendida vista che spazia dal Sella all’alpe di Siusi e, in mezzo, Il Sassolungo, il Catinaccio, il Molignon e i Denti di Terrarossa.

Dato che siamo partiti tardi, ci stiamo avvicinando all’ora di pranzo. Il tabellone a Col Raiser diceva che il Rifugio Seceda è chiuso, ma poco sotto c’è il Sofie. Lì ci fermiamo, un po’ accaldati. Il posto sembra un po’ fighetto ma ci sediamo (quello c’è, e la vista è incantevole). L’arrivo del menù si rivela però un tuffo al cuore e un attentato al portafoglio, si viaggia sulla soglia dei 20€ per un primo o per la polenta. E anche il tagliere di speck non scherza.

Dopo un attimo di smarrimento, ci consultiamo e decidiamo di prendere il tagliere doppio, con affettati formaggio e patate. Ecco, ci arriva una cosa apparentemente “innocua” se divisa in due e che invece porta quel pozzo senza fondo di mio figlio ad alzare bandiera bianca. Anche perché il tagliere ha un bell’aspetto, ma solo in un secondo momento mi accorgo delle patate nella terrina a parte. Due a testa, quelle rosse trentine, lessate, su cui mettere il burro. Tutto buonissimo, direi, per un prezzo onesto.

Ripartiamo e percorriamo l’ultimo tratto di sentiero che ci porta alla stazione di monte dell’impianto che da Ortisei porta al Seceda. Da qui, 10 minuti su uno sterrato un po’ sconnesso e si arriva al belvedere. Ecco, a costo di farla strisciando, anche chi non cammina e sale in funivia deve arrivare fino qui. Il paesaggio dalla cima è qualcosa di impagabile. Il nastro in acciaio corten posizionato attorno ad una piazzola riporta stilizzato il profilo delle montagne e il nome delle vette: Ferméda, Sass Rigais e poi, tutto attorno, Stevia, Sella, Sassolungo, Sciliar e, più lontano, il Gruppo dell’Adamello, il Brennero, le Alpi Austriache… Sotto di noi, verso nord, ci appare la verdissima val di Funes. Il tutto praticamente senza una nuvola.

Si, cioè, quasi… Sopra alle Pale di San Martino, che si scorgono in lontananza, si sono date appuntamento le poche nuvole presenti.

A disturbare la quiete della vetta, il fastidioso ronzio di un drone, che riusciamo ad individuare con parecchia fatica…e che ci accompagna anche per un tratto della discesa. Pure qui la privacy va a farsi benedire…

Scendiamo dalla vetta per imboccare, all’altezza del Rifugio Seceda, il sentiero n°1, che scende dolcemente sul parato, puntando verso Est, per poi farsi un po’ più ripido. Qui sono stati posati elementi in cemento per preservare il fondo, ma, notoriamente, l’acqua se non ha un passaggio se lo crea, quindi ai lati del sentiero si è scavata dei solchi, che in alcuni punti hanno causato lo spostamento e la rottura degli elementi di pavimentazione. Dopo il bivio per Baita Toier, il sentiero cambia denominazione (segnavia n°2) e scende ancora, passando ai piedi delle guglie delle Odle, aggira uno sperone erboso per giungere a Baita Pieralongia, ai piedi della Fermeda di Sotto. Questo posto Ettore se lo ricorda bene: quando siamo stati qui la prima volta tirava un vento allucinante, inoltre, preso dai morsi della fame, ha assaggiato lo speck per la prima volta, ed è scoppiato l’amore…

Imbocchiamo lo sterrato 4A, che, attraversando pascoli verdi, ci porta verso sud, ad intercettare la strada percorsa la mattina. Da qui, mantenendoci in quota, torniamo a Col Raiser.

Ammiriamo ancora qualche minuto il panorama, prima di riprendere la cabinovia per tornare a valle.

Dati escursione

  • Distanza: 8km 700m (partenza e arrivo a Col Raiser)
  • Dislivello: 410m
  • Tempo in movimento: 2h 45′

Puoi trovare il tracciato sul mio profilo Strava

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Pellegrinaggio laico alla diga del Gleno

Eventi disastrosi più o meno recenti, come la frana del Vajont o il crollo della diga di Stava, sono ancora vivi nella memoria, perché ne abbiamo ricordo diretto o per l’impatto che hanno avuto su intere comunità o sulla nazione intera. Per quanto riguarda il Vajont, a riprendere ed analizzare la tragedia ci ha pensato Marco Paolini col suo monologo. Sono eventi che vengono portati ad esempio a futuri ingegneri e geologi, ma purtroppo non sono stati gli unici nella storia d’Italia: molti di essi sono custoditi nella memoria delle comunità che li hanno vissuti sopra la propria pelle ma poco noti altrove, e vanno ricordati per rispetto delle vittime, della verità e anche come monito affinché certi errori non vengano più ripetuti.

Domenica siamo stati alla diga del Gleno, la cui storia era stata sintetizzata in un post di qualche anno fa e al quale rimando per dettagli e approfondimenti. L’escursione da noi fatta è ad anello e non impegnativa.

Le rovine della diga del Gleno possono essere raggiunte seguendo itinerari diversi, ma i più battuti e semplici partono da Vilminore di Scalve e, diversamente combinati, consentono di compiere percorsi ad anello o con deviazioni in località caratteristiche dell’area. L’itinerario più breve in assoluto parte da Pianezza, che in periodo turistico è raggiungibile da Vilminore con bus navetta. Noi scegliamo di salire partendo da Vilminore, tenendoci in sinistra idrografica della valle del Gleno, e di tornare dal lato opposto.

Il percorso

Parcheggiamo all’inizio del paese, dove c’è l’area attrezzata per la sosta dei camper, e ci avviamo verso il centro del paese. Siamo nella via che transita davanti alla chiesa, alla ricerca del percorso che consente di arrivare a Pianezza tagliando i tornanti della strada asfaltata, quando una signora con cagnolino al guinzaglio ci spiega che il percorso è segnalato da formelle quadrate. Impossibile sbagliarsi, anche per chi, come noi, è in giro senza cartina e si sta basando su descrizioni sommarie prese da internet e sulla app (cosa che detesto, ma per stavolta va bene così).

Ci inerpichiamo così lungo ripide stradine, fra case in pietra, torrentelli incanalati e giardini fioriti, fino ad imboccare un viottolo che porta al l’immancabile Via Crucis (ogni paese di montagna ne ha una😁). Percorriamo un tratto di strada, tagliamo nuovamente fra boschi e capre al pascolo e, seguendo i segnali, arriviamo nell’abitato di Pianezza.

È un paesino grazioso e ordinato, proseguiamo e seguiamo una mulattiera a tratti ripida che raggiunge alcuni casolari, per proseguire poi su una mulattiera con fondo molto irregolare, anche a causa dell’azione dell’acqua. Le deviazioni sono ben segnalate dai cartelli metallici riportanti numerazione CAI e tempi di percorrenza, dalle formelle o da più rustici segnali marcati col pennello (il segnavia da seguire è il 411).

Si sale rapidamente, passando accanto alle condotta forzata, fino ad incrociare, in corrispondenza di un manufatto in cemento, una mulattiera pianeggiante (siamo a circa 1500m slm). Qui svoltiamo a sinistra e ci manteniamo in quota, lungo un percorso in parte scavato nella roccia. Il tempo di spiegare a mio figlio la versione breve della storia della diga, con aggiunta di spiegazioni circa le tipologie di dighe e il ruolo dell’acqua nella loro stabilità, e davanti a noi, contro i pascoli verdi, si stagliano le rovine della struttura.

Sembra quasi di passare attraverso un portale, che quasi novanta anni fa ha segnato il passaggio fra la natura piegata alle esigenze dell’uomo e il suo tendere a riprendersi inesorabilmente i suoi spazi, se non si rispettano i suoi equilibri, se per incapacità o sete di denaro non si presta la dovuta attenzione alle “regole del gioco”. L’acqua segue le sue regole, non quelle dell’uomo, e se trova spazio ci si infila, anche se questo significa portarsi via un pezzo di diga e qualche centinaio di vite innocenti. A testimoniare tutto ciò ci sono i (pochi) ferri di armatura che un tempo collegavano le arcate portate via agli speroni superstiti, le strutture del coronamento danneggiate, le riprese di getto che tempo, agenti atmosferici e vegetazione stanno man mano allargando. E le due bastionate rimanenti della diga, che sembrano quasi un fondale per un palcoscenico.

L’invaso esistente, trattenuto da un basso sbarramento, è poca cosa rispetto a quanto era previsto in progetto. Rimangono però vasti prati, terreno privilegiato per escursioni in famiglia, bivacchi per gruppi di amici e pascolo ambito per un gregge di capre, che pasteggia fregandosene beatamente degli escursionisti sdraiati al sole.

Il tempo di uno spuntino e di una passeggiata lungo la sponda del laghetto e ci rimettiamo in moto, risalendo il pendio per aggirare la diga sul lato destro della valle e ridiscendendo poi nel bel sentiero nel bosco (segnavia 410), passando accanto a torrette di avvistamento animali, seguendo le indicazioni per Bueggio fino al ponte sul torrente. Qui si attraversa e ci si trova in un’area sosta con un’installazione a memoria della storia dei luoghi. Percorrendo una forestale, passando ad un enorme formicaio (con tanto di pannello esplicativo su vita e abitudini delle ospiti) e ad alcune abitazioni private, si giunge sulla strada che collega Vilminore a Colere. Ancora qualche minuto e arriviamo in centro.

La sosta gelato è d’obbligo.

Dati escursione

Il tracciato è disponibile sul mio profilo Strava

  • Lunghezza : 11km 700m circa
  • Dislivello positivo: 630m
  • Tempo in movimento: 3h 30′
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Da Selva al Rifugio Firenze

Il rifugio Firenze (Utìa de Ncisles in Ladino) è ubicato ai piedi delle Odle, lato Val Gardena. È facilmente raggiungibile a piedi da Selva o da Santa Cristina ed è, insieme alla stazione di monte della cabinovia Col Raiser, un importante snodo per le escursioni nel Parco Puez-Odle. È un’ottima meta anche per escursioni in mtb. Questa estate l’ho raggiunto in entrambi i modi, di seguito riporto la descrizione dei tragitti seguiti e delle possibili varianti.

A piedi via Daunei – Juac

In realtà la decisione di andare al Rifugio Firenze è stata un ripiego, in un periodo caratterizzato da condizioni meteo poco stabili: l’opzione A era la salita al rifugio Stevia, ma la mattina, al risveglio, troppe nuvole gironzolavano attorno alla vetta e ci attanagliava il dubbio che le previsioni meteo avessero toppato sull’orario di arrivo della pioggia. Dopo un rapido consulto con Ettore (quasi dodicenne compagno di avventure, nonché mio figlio), cartina alla mano ci orientiamo su qualcosa di più tranquillo, con meno dislivello e (presumibilmente) in buona parte nel bosco. Ci prepariamo e usciamo.

Descrizione

Ci avviamo lungo la ripida strada asfaltata che porta all’abitato di Daunëi, località situata circa 150 più in alto rispetto al centro di Selva, in posizione soleggiata, tranquilla e decisamente panoramica. Si prosegue oltre le ultime case, verso il parcheggio a pagamento (qualche tornante può essere evitato prendendo un sentiero opportunamente segnalato) e ancora oltre, fino all’ingresso nel Parco Puez-Odle.

Da qui si imbocca la mulattiera contrassegnata con il n°3, che, alternando tratti tranquilli ad altri più ripidi, attraversa un bosco di conifere, lungo il quale sono state posizionate alcune sculture in legno rappresentanti strumenti di lavoro (…una enorme motosega) e animali tipici della zona, come camosci e cutrettole. Sculture analoghe sono presenti lungo altri sentieri all’ingresso del parco.

Si giunge così al rifugio Juac, situato a 1909m slm su una balconata naturale affacciata sulla valle, con vista Sassolungo. Nei pressi del rifugio è installata una enorme meridiana, che proietta l’ombra sul prato, con le ore materializzate da massi bianchi. Si segue la traccia sulla destra del rifugio, su un prato che sembra una spugna e su cui, nonostante ciò, il gestore ha avuto l’ardire di posizionare una porta da calcio. Si percorre una passerella in legno che scavalca una risorgiva, si prosegue poi prevalentemente in discesa fino ad incrociare la forestale contrassegnata dal n°1, in corrispondenza di un laghetto.

Si prosegue oltre, verso nord, seguendo i segnavia 1 e 3. La mulattiera, che presenta un fondo abbastanza regolare, passa ai piedi dello Stevia puntando verso le Odle, mentre sulla destra si vedono gli impianti a servizio del comprensorio sciistico di Col Raiser-Seceda.

La sagoma del rifugio spunta sulla nostra destra: lo raggiungiamo grazie ad un’ultima rampa su fondo piuttosto ghiaioso e, con un paio di tornanti, ci troviamo davanti alla struttura.

Ci fermiamo per un breve spuntino, con un occhio al cielo perché la situazione non ci convince più di tanto… E per fortuna che, essendo a inizio stagione, ci siamo portati i viveri perché la volpe (io) si è dimenticata soldi, bancomat, documenti… Solo i 2€ trovati in una tasca dello zaino mi consentono di prendere un caffè.

Non ci fidiamo e ci apprestiamo a rientrare alla base, mentre al rifugio arrivano alcuni bikers… col “trucco”. Già, perché in periodo di #herodolomites… son tutti Paez con la mtb elettrica! L’unico ad avventurarsi lì con la muscolare lo incontriamo proprio sulla rampa sotto al rifugio. Torniamo a casa lungo lo stesso itinerario seguito all’andata.

Dati escursione

  • Distanza complessiva: 10km 760m
  • Dislivello positivo: 554m
  • Tempo impiegato: 3h55′
  • Tempo in movimento: 2h52′

Link a percorso su Strava

In mtb da Santa Cristina (con imprevisto)

Premetto che sulla mappa in mio possesso (se non erro acquistata presso “Dolomiti Adventure”) il Rifugio Firenze non è inserito in alcun itinerario, ad eccezione di uno classificato come difficile (discesa dal Seceda, raggiungibile da Ortisei con gli impianti di risalita). Sul sito valgardena.it è invece descritto l’itinerario ad anello n° 298 “Regensburger Hütte Runde”, ovvero “Tour del Rifugio Firenze”, anch’esso classificato difficile, ma all’atto della pianificazione del tour non lo sapevo… Peccato perché questo itinerario avrebbe fatto al caso mio: prevede di prendere quota dirigendosi verso la Vallunga per imboccare, poco dopo “la Ciajota”, la mulattiera identificata col n°26, che passa sotto le rovine del castello di Wolkenstein e si innesta sul percorso fatto a piedi all’altezza dell’ingresso nel parco, evitando la ripida strada asfaltata che porta a Daunëi.

Volendo evitare la strada asfaltata spaccagambe, ho scelto consapevolmente di incasinarmi l’esistenza dirigendomi verso Santa Cristina ed affrontando la forestale che raggiunge il Rifugio risalendo la valle dalla stazione di partenza della cabinovia Col Raiser. In pratica, l’idea era quella di ripercorrere al contrario un tratto dell’itinerario indicato sulla mia mappa, su una strada che segue la pista da sci.

Meglio perire qui, con onore, che in paese su una lunga salita al 14%.

Descrizione

Da Selva mi sono quindi diretta verso Santa Cristina imboccando Streda Plan da Tieja e poi svoltando seguendo i cartelli per la stazione di valle della cabinovia.

La strada asfaltata che serve impianto ed annessi parcheggi è decisamente ripida. Prosegue poi su fondo buono, alternando bruschi strappi (talvolta asfaltati o con i “binari” per le ruote cementati) a tratti più pedalabili. Insomma, fino qui per una persona un minimo allenata è fattibilissima. Peccato che non sia il mio caso…

Si giunge poi ad un bivio, a sinistra una mulattiera molto sconnessa con indicazioni per il rifugio, a destra due strisce cementate che si inerpicano ripide sul versante: ecco, la mulattiera segnalata porta al sentierino per escursionisti, mi rassegno quindi a spingere la bici lungo la ripida salita, facendo attenzione ai mezzi di servizio dei rifugi.

Superato il “gradino”, ricomincia un’ottima forestale che transita vicino a Malga Sangon, con il panorama che si apre sempre più sulle vette aguzze delle Odle. Un ultimo strappo e ci si innesta sul sentiero percorso a piedi, all’altezza del laghetto, che con la bella giornata si trasforma in uno specchio magico.

Proseguendo, devo dire che facendola a piedi mi era sembrata più difficile, anche se, pedalando, sento un rumore strano, quasi come se la ruota fosse frenata, ma in realtà sembra tutto a posto. È solo l’ultima rampa, stretta e ghiaiosissima, a creare problemi e metto giù il piedino, prima di percorrere l’ultimo tratto e di sbucare davanti al rifugio, piuttosto a tocchi ma soddisfatta.

Stavolta i soldi li ho portati e mi sparo una fetta di strudel. Faccio qualche foto e mi accingo a tornare all’ovile.

Faccio una cinquantina di metri e sento un fracasso infernale. Diamine, va bene che ci sono sassi, però… Però non sono i sassi, è il cambio: cedimento strutturale del forcellino, mentre a me cede strutturalmente, in senso metaforico, qualcosa d’altro e dentro di me si accumula una sequela di improperi che la metà basta.

Niente, mi sa che la componente ciclistica delle mie vacanze è andata a quel paese… È pur vero che volevo cambiare la bici, ma dopo le ferie. Piuttosto attapirata scendo a valle “per gravità”, fermandomi periodicamente per spingere o sistemare il deragliatore che picchia sui raggi. Il rientro lo faccio passando per Juac, se devo sburlare un po’ preferisco farlo senza auto che mi passano accanto.

E la mia compagna di avventure finisce così nello sgabuzzino.

Dati escursione

  • Distanza complessiva: 11km 610m
  • Dislivello positivo: 590m

Link a percorso su Strava

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Alla conquista di Cima 12

Se siete in Val di Fassa, avete le gambe buone, non vi spaventano i tratti esposti e cercate un percorso a prova di distanziamento sociale, la salita a Cima 12 fa per voi. La descrizione che segue è relativa alla “salita normale” attraverso i boschi di Pozza di Fassa (ora comune di San Giovanni di Fassa).

Antefatto

Lo scorso anno mio figlio, dopo aver fatto il Re Alberto, ha compilato una specie di “lista della spesa” con le escursioni che voleva fare. Ad un certo punto ha aggiunto anche Cima 12, che sovrasta l’abitato di Pozza di Fassa. Per la precisione, mi ha chiesto di fare la ferrata Gadotti (mi hanno detto che è facile, io però non l’ho mai fatta). Per il momento questa opzione è stata ovviamente scartata, dato che ora il ragazzo ha 11 anni e deve prima imparare a manovrare cordini e moschettoni su qualcosa di molto soft. Mi hanno parlato molto bene anche del percorso sul Sass Aut, ma anche questo è da scartare per i medesimi motivi. Rimane l’opzione sentiero, che ho fatto una sola volta, quasi 30 anni fa. Ho un ricordo piuttosto vago di un paio di passaggi e uno un po’ più vivo di una sensazione fisica: una faticaccia! Del resto, si parte da fondovalle (1300m slm), la vetta è a 2446m e il percorso è “compresso”, quasi tutto su sentiero.

Il percorso è fattibile, a patto di avere gambe buone, non soffrire di vertigini, sapersi muovere su terreno instabile e su sentiero attrezzato.

Propongo quindi di affrontare Cima 12, sapendo che non sarà una passeggiata, ma che ci consentirà di partire senza toccare l’auto (la settimana di ferragosto va usata con parsimonia, soprattutto se non ci si muove prima delle 8). All’ultimo momento Massimo, il mio compagno, decide di aggregarsi. In tre ci avviamo e, da via Meida, imbocchiamo la strada che corre ai piedi del bosco, passando dietro all’Albergo Antico Bagno e ricongiungendosi alla ciclabile per Soraga.

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Da sinistra, Cima 11 e Cima 12. In primo piano, il primo caffè del mattino 🙂

Il percorso

In prossimità del ponticello sull’Avisio che consente di raggiungere San Giovanni, sulla sinistra si stacca uno sterrato con segnava 630, indicazione che va seguita fino in vetta. Ci incamminiamo lungo questa strada, poco dopo incontriamo una nuova deviazione verso sinistra. Sul cartello è stata posta l’indicazione “chiuso per frana”, sul sito dell’APT però il sentiero risulta aperto (avevo verificato prima di partire). Seguiamo pertanto le indicazioni, poco più avanti lo sterrato diventa una mulattiera in corrispondenza di una sbarra verde, sulla quale è ribadito il carrello di chiusura per frana (anche se il punto problematico, come vedremo, sarà ben oltre).

La mulattiera sale rapida nel bosco, oltrepassata un’altra sbarra verde interseca la strada forestale che sale da Soraga. La si attraversa e si continua a salire fino ad incontrare un canalone molto ripido e interessato da uno smottamento: si tratta di un impluvio in materiale detritico che periodicamente scarica acqua, fango e sassi, creando non pochi problemi anche a valle (la sottostante ciclabile è stata più volte invasa dal fango). Qui si è portato via un pezzo di sentiero, esiste però una stretta traccia che consente di attraversare la profonda incisione, richiede però attenzione perché i detriti sul lato sinistro sono instabili. Segnalo che seguendo la sterrata che sale da Soraga (incontrata più sotto), percorrendo al contrario il percorso della Val di Fassa Bike si riesce ad attraversare la frana in un punto più comodo, ma il tragitto si allunga di parecchio, inoltre il percorso non è numerato.

Poco oltre il canalone si raggiunge la radura di Pociacie (1710mslm), dove sorge una baita. Da qui i cartelli segnalano ancora un paio d’ore prima di giungere in vetta.

Pociacie

Si segue sempre il sentiero 630, che torna a salire nel bosco, inizialmente in modo dolce e poi più ripido, passando accanto al tratto sommitale del canalone in frana. Qui incrociamo le uniche due persone che troveremo lungo la salita.

Arrivati alla base della parete rocciosa si svolta a destra e si continua a salire, alternando tratti di ripido sentiero a passaggi su roccette che richiedono l’uso delle mani. Arrivati qui, mio figlio esclama “Guarda!”, mentre io sento un rumore di sassi smosso dietro di me. Con la coda dell’occhio vedo una sagoma scendere veloce e poi fermarsi qualche decina di metri sotto: un camoscio! È la seconda volta che mi capita di incontrarne uno in valle, ma stavolta è vicinissimo. Il tempo di estrarre il telefono di tasca e scattare una pessima foto e la bestia già sta ricominciando a scendere, sparendo fra gli alberi.

Incontri imprevisti

Stupiti per l’imprevisto avvistamento, ma con le gambe che cominciano ad accusare il colpo, riprendiamo a salire lungo il sentiero che, aggirato il Sass da la Luna, punta verso le rocce sovrastanti. Per me, che devo camminare con le fasce elastiche per le ginocchia (altrimenti per scendere mi tocca chiamare l’elicottero) la salita è particolarmente faticosa, inoltre le bacchette qui diventano più un impiccio che un aiuto.

Arriva il difficile…

Il sentiero comincia a sfruttare una serie di cengiette e diedri per salire lo sperone roccioso, in alcuni tratti con l’ausilio di cavi per superare i passaggi più ostici. L’attrezzatura è recente e, sinceramente, non mi pare di ricordare di aver trovato cavi la prima volta che l’ho fatta. In uno di questi tratti, passando sopra un canalone, celebriamo la dipartita degli occhiali da sole di Massimo, che precipitano sulle rocce sottostanti. I passaggi su cavo non sono difficili, ma un pochino esposti (una scivolata qui avrebbe conseguenze parecchio pesanti) e la stanchezza li fa percepire più tosti di quello che sono.

Arrivo sulla sella erbosa (manca poco…)

Raggiungiamo così la cresta erbosa sommitale, all’incrocio col sentiero per il Sass Aut. Da qui in pochi minuti raggiungiamo la croce di vetta, da cui la vista spazia dal Latemar al Catinaccio, ai gruppi del Sassolungo e della Marmolada, fino alle pareti verticali della vicina Cima 11.

In vetta!!!

Missione compiuta in 3h30′ da casa, quindi perfettamente in linea con le tabelle di marcia! Una vista che ripaga abbondantemente la fatica fatta per salire qui e la soddisfazione di addentare un panino godendoci la vetta noi tre da soli.

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Verso l’infinito e oltre!!!

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Il Gruppo del Catinaccio

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Gruppo del Sella

La discesa avviene seguendo il medesimo tracciato, mentre ci dirigiamo all’attacco del sentiero attrezzato incontriamo altre tre persone che avevano percorso la Gadotti. La discesa si rivela particolarmente spaccagambe, alla fine siamo piuttosto provati ma soddisfatti. Chi paga le conseguenze peggiori è indubbiamente Massimo, che negli ultimi anni si è dedicato esclusivamente alla bici, lasciando a me il compito di “svezzare” il pargolo sui sentieri delle nostre vacanze. Ora che il ragazzo viaggia più di me ha voluto fare un po’ il “ganassa” imbarcandosi in una escursione fisicamente impegnativa al primo giorno utile di ferie.

Nota a margine. In una estate nella quale già a luglio si raccontano di ressa da centro commerciale il primo giorno di saldi per vedere il lago di Braies, o di file chilometriche per prendere la funivia del Sass Pordoi, noi abbiamo incontrato cinque persone (più una famigliola con prole nel tratto di bosco vicino alla ciclabile di fondovalle). Questa non è certo una escursione per tutti, ma, con un po’ di fantasia e affidandosi al parere di chi conosce il territorio, si possono tranquillamente fare escursioni senza avere l’impressione di essere sui navigli all’ora dell’Ape. Insomma, ogni tanto lasciate perdere le foto fighe su istagram e consultate una guida, non ve ne pentirete.

Dati tecnici

Secondo Strava, fra andata e ritorno abbiamo fatto 11km e 1367m D+. Sinceramente, il dislivello mi pare sovradimensionato, ma non è comunque inferiore ai 1200m D+

https://www.strava.com/activities/3892430838/embed/f90cc422a20d47a14507176a0400b9b1eba17606

Tracciato dell’escursione

Altimetria

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Ai piedi delle Torri

Me lo ero ripromessa nel 2018, missione compiuta nel 2019. Ho portato lo gnomo (o ex tale) al Re Alberto, ai piedi delle Torri del Vajolet.

Ho creato un mostro. Mio figlio zompetta allegramente su sentieri su roccette, macina metri di dislivello come niente e io faccio quasi fatica a stargli dietro (anche se non è proprio tutta colpa mia, i tutori per le ginocchia ostacolano i movimenti e mi stancano, ma senza sarebbe pure peggio).

Ci ho messo qualche anno, ma c’è l’ho fatta. In passato si riusciva a portarlo in giro solo organizzando complotti da spia navigata, nel 2018 lo avevo portato a Passo Principe sorbendomi una buona dose di improperi. Questa estate c’è stato il salto di qualità, con un trittico di escursioni di tutto rispetto (Lagusel, che aveva già fatto, seguita da Re Alberto e Cima 11). Il giovane a dieci anni sta quasi per raggiungermi in altezza (oddio, sai che fatica… 😦 ) e ha due gambe belle robuste, inoltre ha sempre preferito sentieri sconnessi alle tranquille forestali (sulle quali, invece, scassava allegramente la uallera). Ora ci ha proprio preso gusto, anzi per l’estate prossima abbiamo come obiettivo il Piz Boè (lo ha chiesto lui, eh..).

Coronavirus permettendo, ovviamente…

Dunque, torniamo a noi.

Della Conca del Gardeccia e delle escursioni che partono da qui ho già parlato altre volte. Ad esempio, nel post sull’escursione a Passo Principe avevo descritto il tratto dal Gardeccia fino ai rifugi Vajolet e Preuss. Dall’estate del 2019 però la riorganizzazione del servizio trasporti in Val di Fassa e l’imposizione di maggiori vincoli di accesso alle convalli, con l’eliminazione del servizio navetta per il Gardeccia, costringe ad allungare un po’ il tragitto. Noi siamo andati (a piedi) alla partenza della seggiovia di Pera e abbiamo preso i due tronconi del rinnovato impianto che porta a Pian Pecei. Da qui si può raggiungere il Rifugio Gardeccia seguendo due diversi percorsi: oltre al percorso “classico”, la forestale su cui si innesta, in prossimità dell’ex Rifugio Catinaccio, il sentiero che arriva dal Ciampedie (contrassegnato dal segnavia n°540), c’è anche il Sentiero delle Leggende, che segue un percorso più basso e, dopo esser passato accanto a un paio di baite situate in posizione invidiabile (panoramica e tranquilla), sbuca nel piccolo spiazzo in precedenza utilizzato come “capolinea” del servizio navetta.

Lungo il Sentiero delle Leggende

Pausa ruminati

All’andata abbiamo seguito il Sentiero delle Leggende, così chiamato perché lungo il percorso ci sono tabelloni con alcune delle più famose leggende ladine: misura circa 3km e il dislivello è molto contenuto, ed è meno frequentato della forestale. Con molta calma (e un quasi scambio di bacchette con una mia omonima), passando al cospetto di placide mucche intente a ruminare, siamo arrivati al Gardeccia, impiegando meno di un’ora. Dopo una salutare (per me) pausa caffé ci siamo rimessi in cammino in direzione rifugio Vajolet (segnavia 546), lungo il medesimo percorso seguito per salire a Passo Principe.

Ex Rifugio Catinaccio

Rifugio Preuss

Rifugi Vajolet e Preuss. Sullo sfondo Passo Principe

Qui ci siamo concessi una pausa cibo, prima di imboccare in sentiero n°542 che, su roccette, in circa un’ora consente di superare i 400m di dislivello che separano dalla meta.

Gli ultimi 400 metri (in verticale)

Rifugi Vajolet e Preuss e la sottostante conca del Gardeccia

Via le bacchette, qui, perché sono d’impiccio. Il primo tratto del sentiero, un po’ sconnesso, permette di prendere quota piuttosto rapidamente, si arriva poi al tratto su rocchette, dove vari spezzoni di cavo d’acciaio consentono di tenersi per superare i passaggi più complessi senza scivolare. Il continuo passaggio di persone ha consumato qualche appoggio, rendendolo un po’ scivoloso in caso di sentiero umido, ma i cavi sono utili soprattutto in discesa, o comunque quando si incrociano persone sul percorso, perché lo spazio è poco, un occhio non troppo avvezzo può aver difficoltà ad individuare i segni biancorossi e, obiettivamente, qui le mani per salire servono.

Intendiamoci, non è una scalata e non può essere considerata certo una ferrata, ma non è un sentiero facile. Mi è capitato di vedere persone faticare non poco ed è da evitare se si teme il vuoto, ma è un percorso di gran soddisfazione, e guidare un bambino alla scoperta di questo mondo magico, raccontando le storie dei luoghi, i tuoi ricordi di ragazza, le tue emozioni, insegnargli come ci si muove in questo ambiente e vederlo salire spedito ed entusiasta… è ancora più bello. E può anche essere occasione per “portarsi avanti col programma”, spiegando come ci si comporta quando non basta una manina messa lì per sentirsi tranquilli tenendosi al cavetto, ma ci vogliono moschettoni e cordino per procedere in sicurezza.

Ci siamo quasi…

Gli escursionisti giù al rifugio Vajolet si fanno puntini, mentre si passa sotto la teleferica e i cavetti di sicurezza finiscono, con il sentiero che ora è ricavato su brecciolino scivoloso o lungo il passaggio della condotta dell’acqua, mentre si cominciano ad intravedere le sagome colorate degli scalatori armeggiare sulle pareti.

La pendenza si riduce e, mentre la conca si apre, spunta il tetto del rifugio Re Alberto e sulla destra le Torri del Vajolet si mostrano, finalmente, con la loro inconfondibile ed elegante sagoma, un ricamo di roccia che si staglia sul cielo azzurro: da sinistra, la Delago, la Stabeler, la Winkler. E il mio ometto, soddisfattissimo, si gode il panorama… e pensa a cosa ordinare per pranzo…

Al cospetto delle Torri del Vajolet

Intanto ci guardiamo intorno, il laghetto è decisamente ridimensionato rispetto all’ultima volta che sono salita qui. Escursionisti si muovono come formichine lungo la traccia che porta a Passo Santner, punto di arrivo per la ferrata che sale dal lato altoatesino del gruppo montuoso (non è difficile ed è divertente, si presta ad un bellissimo giro ad anello, condizioni dei sentieri permettendo (a inizio estate 2019 alcuni sentieri della zona erano stati chiusi per smottamenti).

Verso Passo Santner

Ettore cerca Bolzano fra le nuvole

Salendo un po’ rispetto alla conca del rifugio, proprio sotto alle torri, si raggiunge un punto estremamente panoramico, da qui si vede verso Tires e Bolzano, ma, essendo il punto di incontro dei flussi d’aria che salgono dai due versanti, è frequente che qui si formino delle nuvole: succede anche stavolta, con turbini che rimescolano l’aria carica di umidità ostacolando la vista sulla vallata sottostante.

Rifugio Re Alberto

E al rifugio, mentre io mi ordino un minestrone reintegra liquidi, Ettore ordina una pasta al ragù che avrebbe messo in difficoltà un camionista, per la prima volta lo vedo arrendersi e lasciare lì, nel fondo della zuppiera (perché a chiamarlo piatto ci vuol coraggio) un po’ di pasta.

Finito il pranzo, messo il timbro sul Passaporto delle Dolomiti ed acquistato il magnete che ora adorna il nostro frigorifero, ci rimettiamo in marcia per scendere. E qui faccio una considerazione: capisco che non tutti sappiano muoversi agevolmente in montagna, ma se oltre a far fatica ti fermi pure per foto ricordo di gruppo in un posto infognato, bloccando il passaggio per qualche minuto e costringendo gli altri a star fermi in posizione scomoda per dar modo di decidere chi deve scattare la foto, attendere il ritardatario e metterti in posa, beh allora non è questione di agibilità fisica… È che sei un pochino infame… (scusate lo sfogo…).

Souvenir (lo vendono solo qui)

Dal Preuss, fuori le bacchette e poi giù verso il Gardeccia, perché è ripido e si scivola. In corrispondenza dello sbocco della forestale nella conca noto una cosa a cui non avevo fatto caso salendo. Di lato alla strada c’è un edificio fatiscente di forma rettangolare: ricordo che i primi anni che venivo qui c’era un negozietto di souvenir e (forse) di generi alimentari. Beh, è in vendita. Se qualcuno volesse cimentarsi in un’impresa epica…

Poco sotto si celebra il rito della pausa merenda alla Baita Enrosadira, che ha una terrazza affacciata sulla valle ed è in posizione più tranquilla rispetto al Gardeccia. Le mie gambe sono stanche, i tutori fanno sentire gli effetti della limitazione alla circolazione. E qui anche Figlio comincia ad essere un po’ affaticato, ma la torta che si mangia resusciterebbe i morti.

Vendesi (rudere)

Da qui prendiamo l’agevole forestale che conduce fino a Pian Pecei, punto di snodo per gli impianti di risalita (alcuni attivi anche in estate), arrivo della “fly line” del Ciampedie e…frequentatissimo pascolo 😊, qui riprendiamo la seggiovia che ci riporta a Pera.

Dati tecnici

Dislivello in salita/discesa: 810m circa

Tempo di salita: 2h45′

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Nel cuore del Catinaccio

Verso Passo Principe, all’ombra del Catinaccio di Antermoja

Intro

Lo confesso: questa estate ho accarezzato l’idea di portare mio figlio al rifugio Re Alberto.

Per chi non conoscesse la Val di Fassa, Il Re Alberto si trova a 2621m slm, in una conca nel gruppo del Catinaccio ai piedi delle Torri del Vajolet, accanto ad un laghetto. Solo da questa conca le Torri si possono ammirare nel pieno del loro splendore, col la sagoma che si slancia verso il cielo, e per arrivare qui o si fa la ferrata di Passo Santner (che di suo è facile, ma il giro completo è lunghetto), o si scala la parete del Catinaccio (se si è capaci) e poi si scende, o si sale dai rifugi Vajolet e Preuβ con un sentierino su roccette, che consente di superare i circa 400m di dislivello in uno sviluppo ridottissimo.

C’ero quasi riuscita a convincere il marmocchio (per l’ultima opzione, si intende), poi abbiamo deciso di rinunciare, ma gli ho strappato una mezza promessa per il prossimo anno. Abbiamo così seguito quello che mi ero tenuta come piano “B”, più lungo ma meno impegnativo (oddio… forse, alla fin della fiera la differenza è minima…).

Si, insomma, siamo andati a Passo Principe.

Non ci venivo da un sacco di tempo, l’ultima volta avevo fatto la ferrata dell’Antermoja (bellissima e non impegnativa), insieme ad alcuni amici. E’ più un punto di passaggio che una meta vera e propria: di qui infatti si passa di ritorno dal giro dell’Antermoja, o per salire, appunto, in vetta, facendo la ferrata. Oppure ci si passa per scendere verso il rifugio Bergamo, o per risalire verso il Molignon e da lì all’Alpe di Tires. Si, insomma, è un punto di appoggio per traversate, però merita comunque una escursione, perché… la meta E’ il viaggio. Messo così sembra un discorso un po’ strampalato, però il sentiero attraversa un vallone solitario, che passa ai piedi del “lato B” delle Torri del Vajolet e al cospetto del Catinaccio di Antermoja, con la sua inconfondibile cengia diagonale. E’ molto meno affollato di altri percorsi, e, dal punto di vista paesaggistico, merita.

Mappa della zona

La nostra escursione

Il punto di partenza è la conca del Gardeccia (1950m slm). Qui ci si può arrivare tramite bus navetta da Pera o da Pozza, oppure prendendo i primi due tronconi della seggiovia Vajolet che, da Pera, porta a Pian Pecei, da qui si deve camminare ancora per mezz’ora circa su comodo sterrato. Volendo “esagerare”, si può salire al Ciampedie da Vigo e da qui si arriva al Gardeccia in circa tre quarti d’ora (segnavia 540).

Mettiamo da parte per un attimo il Ciampedie… e andiamo a Pera, alla stazione di partenza della seggiovia, dove c’è anche la fermata della navetta. Visto che non c’è troppa confusione, facciamo il biglietto e saliamo sul pulmino. Partiamo e, percorsa la rotonda sulla statale, ci dirigiamo verso Ronch e Muncion, le due frazioni a mezzacosta di Pozza. Tutte le volte che faccio questo percorso mi chiedo quanto durino questi furgoni, che fanno le “ripetute” lanciati su rampe dalla pendenza decisamente sopra la norma, rallentano se incrociano altri veicoli e ripartono allegramente su un buon 16%.

La parete del Catinaccio

Uscendo da Muncion si passa accanto all’ex Baita Regolina e si entra ufficialmente nella vallata del Gardeccia. I primi anni che venivo in valle, qui si saliva in macchina, ed era il delirio, con macchine che si incrociavano in punti strettissimi, che venivano parcheggiate in ogni dove, e tu che pregavi di non incrociare nessuno mentre con marcia bassissima salivi sulle rampe strette e ripide. Poi, dopo l’ennesimo cedimento della strada, si è deciso di cambiare strategia, ed è iniziata l’epoca dei bus navetta. Non che frane e smottamenti siano finiti, ma almeno le auto non rischiano di rimanere boccate in quota, se non addirittura sepolte da scariche di sassi e fango, si riduce l’inquinamento e il mal di pancia dei turisti. E il torrente che scende dal passo delle Scalette, che con il disgelo e i grossi temporali si porta giù la qualunque, è stato lasciato libero di fare “danni”, perché, invece di costruire un inutile ponte destinato a durare (forse) una stagione, si è lasciato un passaggio a guado.

Da Gardeccia al Rifugio Vajolet

In cordata sul Catinaccio

Arriviamo al rifugio Gardeccia, poco sotto c’è lo spiazzo di manovra dei mezzi. Qui sistemiamo scarponi e bacchette, e ci mettiamo in marcia lungo la frequentatissima mulattiera che, costeggiando il Gardeccia e lo Stella Alpina, si dirige verso il Vajolet (segnavia 546). E qui mi lancio in aneddoti e ricordi, per distrarre il figlio che su questi sterrati tende ad annoiarsi, e, senza pudore, mi chiede quando ci fermiamo a mangiare il panino, perché lo stomaco brontola.

Eh? Ma sono le 9.40!!!

Mi guarda con un sorrisino da “beh, ci ho provato”, e ricomincia a guardare in avanti.

Fra massi erratici e conifere, che a 2000 sono un po’ più piccole e rade, vediamo davanti a noi l’inconfondibile parete del Catinaccio e, più a destra, il rifugio Preuβ si staglia contro il cielo, sopra un alto sperone roccioso. L’effetto è, in un certo senso, un po’ inquietante, la collocazione è degna del castello di un principe malvagio. La forestale, dopo aver percorso un tratto tranquillo, si fa più ripida, con rampe che si fanno sempre più cattive mentre ci avviciniamo alla parete del Catinaccio. La giornata è stupenda, e alcuni scalatori stanno salendo lungo una via tracciata sulla parete.

Le Torri del Vajolet dal basso

Il marmocchio qui vuole fare il grande, tagliando un pezzo di sentiero, Rischia di infognarsi in un punto scivolosissimo, lo riporto su una traccia un po’ più marcata ed arriviamo al rifugio Preuβ (siamo a circa 2240m slm). Qui “esco” il primo panino, mentre gli presento le possibilità di continuare l’escursione (in sostanza, cerco di fargli un mini lavaggio del cervello per convincerlo a salire al re Alberto). Esibisco tutto il mio sapere indicando vette e passi circostanti, spiegando le varie possibilità e… si, salire ne vale proprio la pena, e c’è un bimbo più piccolo di lui che sta partendo insieme ai suoi familiari. Proviamo a partire, ma lo gnomo non è molto convinto. Siccome lo conosco, temendo che cambi idea sul più bello, gli prospetto l’alternativa Passo Principe, indicando in modo un po’ vago la direzione. Vada per quella. Scendiamo e ci avviamo verso la mulattiera contrassegnata dal n°584, decisamente più agevole rispetto alla salita per il Re Alberto.

Rifugio Vajolet

Sulla sinistra abbiamo il gruppo del Vajolet, che su questo lato ha pareti meno verticali e caratterizzate da “gradoni” naturali, sulla destra, passato il gruppo del Larsech, ammiriamo l’inconfondibile sagoma dell’Antermoja. La giornata splendida fa risaltare il colore rosato della dolomia, che fa contrasto con cielo blu; il verde dell’erbetta di alta quota sembra ancora più verde, mentre, insieme ad altri escursionisti, ci avviamo verso il passo, che è sempre “là dietro”. Un “dietro” che viene di volta in volta declinato in dietro la curva, dietro il colle, dietro quella roccia… finché non si comincia ad intravedere la traccia dell’ultimo tratto di sentiero, che sale ripido sul ghiaione… e il figlio un po’ si incazza, sentendosi preso in giro.

Uno sguardo alle spalle, salendo verso Passo Principe

Ma la cosa bestiale è che questo sentiero, fatto a piedi, non è per nulla impegnativo, anche se, ridendo e scherzando, il passo Principe è a circa 2600m (più o meno come il rifugio Re Alberto) e le tabelle danno circa 1h15′ dai rifugi Vajolet e Preuβ. Qui però, ad un certo punto, vediamo arrivare un piccolo gruppetto di bikers su bici da paura, che non paiono soffrire le rampette e il fondo sconnesso. Tra il sorpreso e il perplesso, lasciamo loro strada, chiedendoci che intenzioni potessero mai avere, una volta arrivati al rifugio, che ancora non possiamo vedere, ma la cui posizione è deducibile dalla bandiera che vediamo spuntare tra le rocce.

Rifugio Passo Principe

L’ultimo tratto del sentiero è caratterizzato dalla presenza di detriti, qui la roccia è particolarmente fratturata, e si sale a zig zag. E’ l’ultima fatica… e si svalica! Il rifugio è addossato alla parete, nel poco spazio a disposizione è stata ricavata anche una piazzola per l’elisoccorso, usata dai molti escursionisti come piazzola di sosta per il pic nic improvvisato. Qui possiamo riposarci (e mangiare il panino n°2, per il bambino), seduti contro la parete del rifugio per sfruttare una strisciolina di ombra.Davanti a noi, il Catinaccio di Antermoja, che sovrasta il passo. Da qui parte il sentiero per il passo di Antermoja (dal quale si raggiunge l’omonimo lago), oltre alla ferrata che porta in cima, a circa 3000m. Alla nostra sinistra invece il sentiero scende verso il rifugio Bergamo, e verso il Passo del Molignon, e da qui si vede il ripidissimo sentiero che consente di raggiungerlo, salendo a zig zag in un canalino (l’ho fatto una volta, quando ero giovane, ed è ben tosto…).

Panoramica dell’Antermoja

Verso il Passo del Molignon

Niente paparazzi!!!

La targa in ricordo di Tita Piaz

Dopo lo spuntino, il caffè, le foto, viene il momento di scendere. Ripercorriamo così il sentiero percorso all’andata e, arrivati al Vajolet ci fermiamo un attimo per rendere omaggio al grande Tita Piaz, il Diavolo delle Dolomiti, che qui era di casa (fu fra i promotori della costruzione del rifugio Re Alberto, mentre la moglie era direttrice del rifugio Vajolet).

La forestale che dobbiamo percorrere per tornare al Gardeccia, e che abbiamo in parte saltato, è veramente ripida, si scivola facilmente. Ci dobbiamo fermare in un paio di occasioni per lasciar passare il fuoristrada del rifugio.

Fra i numerosi escursionisti che, a quest’ora, scendono verso valle, c’è qualcosa che disturba la vista. E siccome io sono un po’ una carogna, questo “disturbo alla vista” lo fotografo.

 

 

 

Scendendo dal Rifugio Vajolet. I rifugi Gardeccia e Stella Apina

no comment…

Intendiamoci, ognuno ha il diritto di andare in giro come caspita gli pare. In città, al mare… ma in montagna ci vorrebbe un tanticchia di buon senso nella scelta degli scarponi, dello zaino… altrimenti utilizzi chi ti accompagna in sostituzione dei bastoncini, perché rischi di scivolare ad ogni passo…

E così cerchiamo di tenerci lontani dalla simpatica coppia, per evitare di essere travolti in caso di ruzzolone. E non ci riesce poi così difficile seminarli, anche se noi non scendiamo certo di corsa.

Arrivati nella conca del Gardeccia ci fermiamo per una provvidenziale merenda. Il “pargolo” cerca i battere il suo record di velocità di mangio-Sacher… dopodiché ci rimettiamo in marcia. Già, perché stavolta un po’ di tempo, volendo, lo possiamo trovare per stare al parco al Ciampedie (visto che qualche giorno prima siamo dovuti scendere a precipizio), ma prima dobbiamo arrivarci… decidiamo così di non riprendere la navetta, ma di fare la tranquilla passeggiata che ci porta, appunto, al Ciampedie.

La mulattiera (segnavia 540) corre in quota attraverso il bosco, numerosi cartelli illustrativi spiegano come riconoscere le principali essenze arboree e la loro origine, le caratteristiche, gli animali che popolano il bosco… e il sottosuolo. Con passo discreto ci vogliono circa 45 minuti, e il dislivello è inferiore a 100m.

La “pista azzurra”

Avvicinandosi al Ciampedie, si attraversano quelle che in inverno si trasformano in piste da sci. Qui non i sono molte piste, ma le difficoltà sono abbastanza varie. Le rosse presentano comunque dei muretti di tutto rispetto, ma quando si attraversa la nera (la famosa “Pista Tomba” si capisce… fa abbastanza impressione già così, personalmente non ci tengo a provarla in inverno…

Si arriva così in prossimità del Rifugio Negritella, da qui al cocuzzolo più panoramico del mondo sono ancora pochi minuti a piedi.

E il figlio può sfogarsi nel parchetto (se lo è meritato…)

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Attorno alla Roda

Panoramica dallo Stalòn de Vaèl

Allora: posso finalmente dire che ho trovato un compare di escursioni che, pur non essendo (ancora) all’altezza di quello che piace fare a me, anche se quanto ad altezza fisica manca poco, mi tiene un po’ a freno impedendomi di zompettare qua e là più di quanto consentito dalle ginocchia malandate.

Si, insomma… posso finalmente contare sul figlio, che ora ha nove anni e un passo più che discreto, per non andare sempre in giro da sola.

E dove posso portare un bambino curioso alla scoperta del mondo dolomitico? Attorno alla cresta del Majaré e alla Roda di Vaèl!!!

Già, perché qui di che chiacchierare mentre si cammina ce n’è, dall’origine delle dolomiti (su cui a momenti tiene lezioni lui a me), ai fossili che si possono trovare nelle formazioni su cui sono nate le dolomiti, alle dis-avventure mie di quando, sedicenne, ho fatto l’ascensione di fine corso di arrampicata a Torre Finestra. Oltretutto il tratto dal Rifugio Paolina al Roda di Vaèl è una vita che non lo faccio, quindi…

Quindi si pianifica la giornata in montagna, orario dei mezzi alla mano: qui l’auto la si sposta solo se necessario, e visto che partenza e arrivo non coincidono… si va col bus.

Dalla carta Tabacco 06 – 1:25000 (è un po’ vecchia è vissuta…)

Scelta del percorso

Dunque: tenendo come fissi il Paolina e il Ciampedie, facciamo da Est a Ovest o il contrario?

Diciamo che la logica vorrebbe partenza dal Ciampedie e ritorno dal Paolina, per sfruttare meglio la mattina facendo pausa pranzo sotto alla Roda, d’altra parte facendo così, in caso di peggioramento del tempo, correremmo il rischio di scendere in seggiovia sotto la pioggia (e non è mai un gran divertimento). Ma ciò che fa propendere per percorrenza Ovest-Est è una questione… ehm… pratica: al Ciampedie c’è il parco giochi, e partire da lì è un bel casino. Meglio arrivarci, e al limite fermarsi lì prima di scendere (ovviamente, ometto la trasmissione di questo mio ragionamento allo gnomo).

Quindi ci organizziamo, partenza in bus da Soraga e cambio a Vigo, direzione Carezza, e la fermata è accanto alla partenza della seggiovia per il Paolina. L’attesa della coincidenza è allietata dalla vista sulle vette circostanti.

Roda di Vaèl e Majaré da Vigo

L’escursione

La seggiovia ci porta al Rifugio Paolina (2125m) passando sopra verdi prati che, in inverno, si trasformano in piste da sci; alcuni contadini sono impegnati qui nel taglio dell’erba con mezzi che, dalle mie parti, non si usano più nemmeno per l’erba del giardino. D’altra parte, le pendenze non consentono l’impiego di mezzi di dimensioni maggiori. Incuneato fra i prati c’è anche un campo da golf, disegnato in modo da sfruttare la pendenza del versante. Mentre ci avviciniamo alla cresta del Majaré, la vista si apre accanto a noi sul Latermar e, alle nostre spalle, sulla Val d’Ega e verso Bolzano. Purtroppo la foschia e le nuvole all’orizzonte nascondono alla vista le vette innevate dell’Adamello e dell’Ortles, che da qui sono visibili nelle giornate limpide.

Il Latemar

Verso la Val d’Ega

Dal rifugio imbocchiamo il sentiero in direzione Rifugio Roda di Vaèl (n° 539) che ci fa prendere quota, con una manciata di gradini, fino ad intercettare il n°549, che “circumnaviga” il Catinaccio fra i rifugi Fronza e Roda. Siamo indicativamente all’altezza del monumento a Christomannos, personaggio chiave per lo sviluppo del Turismo nel Sud Tirolo e nelle Dolomiti, e “papà” della cosiddetta “Strada delle Dolomiti”. L’aquila in bronzo è ben visibile lungo il sentiero, appollaiata sopra uno sperone roccioso a circa 2300m, dominante il Passo di Costalunga.

Monumento a Christomannos

Il sentiero ora si snoda agevole, pressoché in quota, aggirando la parte terminale della Cresta del Majaré (qui termina la ferrata omonima), mentre la vista si sposta ora verso Moena e la sovrastante valle verso il San Pellegrino, e, man mano che si procede, verso il Buffaure, la Marmolada, Il Gruppo del Sella. Avvicinandoci ai rifugi Roda di Vaèl e Pederiva compaiono alla nostra vista anche il Larsech, la cresta delle Cigolade e i Mugoni, mentre il pargolo, sollevando lo sguardo dal sentiero, si lascia scappare un sonoro

Wow!!!

Arriviamo così alla nostra prima tappa (2280m circa), e approfittiamo del fatto che siamo arrivati presto per ordinare il pranzo prima che arrivi la “folla”. Mangiamo così con vista sulla Roda di Vaèl e sulla Torre Finestra, lastrone di roccia il cui foro, nelle giuste condizioni di luce, è visibilissimo anche da fondovalle.

Il rifugio Pederiva e, seminascosto, il Roda di Vaèl

Rifugio Roda di Vaèl

Rifugio Pederiva

Con lo sguardo verso il Sella

Ci sediamo poi sul prato, guardandoci intorno e scattando qualche foto. In quel momento suona il telefono. E’ il mio compagno, che, nel frattempo, è andato a fare un giro in mtb.

Senti, ma…. Hai tu le chiavi di casa?

(attimo di panico… il moroso è chiuso fuori di casa)

Cazzo, si, le ho io… mi sono dimenticata di lasciartele. Solo che non riesco mica ad essere giù prima di due ore e mezzo-tre…

La stima è fatta ad minchiam, senza considerare l’eventuale attesa del bus.

Non preoccuparti, finite tranquilli il giro.

Certo, fossi da sola potrei anche scendere diretta verso Vigo, ginocchio permettendo, ma se faccio fare al bambino 800m di dislivello in discesa di corsa, come minimo mi disconosce come madre…

Torre Finestra e Roda di Vaèl

Paolo Fresu in concerto con Musega de Poza, 29/07/2018 – www.lausc.it

Il sentiero verso il Ciampedie

A quel punto ci rimettiamo in moto lungo il sentiero 545. L’inizio è ostico, nel senso che il dislivello che separa i rifugi dal sottostante Stalòn de Vaèl è di circa 250m, e il primo tratto di sentiero è molto ripido ed inciso dall’acqua. Arrivati nell’ampia conca erbosa però si procede agevolmente, con una splendida vista sulle cime che ci avvolgono, come se si trattasse di un teatro naturale.

E proprio questo scenario naturale è stato sfruttato anche per spettacoli in alta quota. Ad esempio, nell’ambito de “I suoni delle Dolomiti” a fine luglio in questa zona si è tenuto un concerto con Paolo Fresu e la banda Musega de Poza (nel link il video). Ecco, Fresu è uno degli artisti che spesso si esibiscono in quota, e purtroppo non sono ancora riuscita ad assistere ad un suo concerto…

Si scende lungo una forestale, a tratti ripida, fino alla malga Vaèl, da qui si procede ulteriormente seguendo i segnavia (attenzione, perché la vecchia strada non è più percorribile) e, dopo il torrente, si segue un sentiero ben segnalato che si addentra nel bosco.

Qui si procede per un primo tratto in salita e poi ci si mantiene in quota, dapprima nel bosco, successivamente si percorre una zona piuttosto scoscesa caratterizzata dalla presenza di speroni di roccia fittamente stratificata e parecchio fratturata, che forniscono l’occasione per un piccolo ripasso di geologia…

Occhio ai sassi…

Si rientra ancora nel bosco, che a tratti, si fa meno rado, finché non si sbuca sulla pista da sci che scende verso Vigo.

A lezione di geologia

La si attraversa e si riprende nuovamente il sentiero. Ma manca poco: percorso un breve tratto si intravede la sottostante sterrata, si scende e ci si ritrova a percorrere il primo tratto della pista Thoni. Si passa fra due rocce e si costeggia il rifugio Negritella. Si alza lo sguardo ed eccolo lì, il Ciampedie, la terrazza sul Catinaccio.

Il Ciampedie

Verso il Vajolet

Visto il casino combinato con le chiavi, non possiamo goderci più di tanto il panorama (e nemmeno usufruire del parco giochi). Ci avviamo quasi subito verso la funivia, alla ricerca del primo bus utile per tornare a casa (col capo cosparso di cenere).

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Ai piedi del Sassolungo

Dove si può andare a fare un giro in montagna a portata di bambino ma con un bel panorama, partendo da Selva di Valgardena senza muovere la macchina perché in paese è tutto bloccato causa Hero?

Il percorso seguito è quello evidenziato in verde (da http://www.alpenwelt-kunden.com/www/kunden/tvb_groeden/)

La risposta è abbastanza facile: città dei sassi!!! Ovvero, una passeggiata tranquilla ai piedi del Sassolungo, dalla stazione di monte della cabinovia Ciampinoi fino a passo Sella e ritorno, così vediamo passare i bikers che si cimentano col percorso medio…e se, non ci mette troppo a fare il giro, becchiamo pure il capofamiglia sulla strada del ritorno. E l’escursione sotto il punto di vista tecnico è decisamente facile, bisogna solo sperare che non ci sia vento.

Il 16 mattina ci svegliamo con un sole spaziale. Quando io e il pargolo ci prepariamo per la nostra escursione, papà Massimo è già uscito da un pezzo. Mentre usciamo direzione stazione di valle della cabinovia, lancio uno sguardo all’orologio:  è più o meno l’ora della partenza del nostro Hero, che, dalla griglia numero 14, si appresta ad affrontare la salita per Dantercepies. Noi intanto scendiamo tranquillamente da Pian verso il paese seguendo il torrente, passando cioè dal parcheggio dei camper. Intanto un’occhiata verso il Sella la lancio: pare non ci sia vento, per fortuna.

Dopo aver provato inutilmente a raggiungere la Ciampinoi passando dal prato (ma di lì mi sa che si passa solo d’inverno), ci riportiamo sulla strada ed arriviamo alla cassa. Davanti a noi, alcuni bikers stanno facendo i biglietti. la cabinovia infatti consente di prendere quota con la due ruote, per poi affrontare il percorso di freeride o percorrere i sentieri ai piedi del Sassolungo, con  senza “aiutino” elettronico: già, perché le e-bike a ruote grasse prendono sempre più piede, per le possibilità che offrono. Il mio figliolo intanto, dall’alto delle sue due partecipazioni alla Hero kids, fa il piccolo integralista:

No, a me le bici elettriche fanno schifo. In bicicletta bisogna pedalare

Caro mio, aspetta che mamma ti porti questa estate a fare qualche giro…poi vediamo se la vedi ancora così…

Verso le Odle

Con la cabinovia superiamo i circa 700m di dislivello che portano ai 2250 della stazione di monte. Da qui il panorama si apre verso lo Sciliar e l’Alpe di Siusi, sulla la Val Gardena verso le Odle, Passo Gardena, il Gruppo del Sella e il Sassolungo. Ed è da qui che si parte per immettersi sulla Saslonch (vecchia o nuova, a seconda dei gusti), per provare il brivido della discesa a fionda lungo la pista dei campioni. Ecco, il “si parte” e generico: fate pure, io vi guardo dal bar 😀 . E mica solo loro… pure i ragazzi che si buttano col parapendio li osservo, ma da lontano. Deve essere bellissimo, per carità… ma anche no. Io i piedi li tengo ben attaccati a terra.

Sciliar e Alpe di Siusi

Dopo le foto di rito cominciamo a scendere. Seguiamo il segnavia 21, che ci porta, con qualche “tornante” in mezzo al pascolo, ad una selletta (Sela Tieja). Da qui, svoltando a sinistra si scende a Pian de Gralba, noi invece andiamo dritto lungo il 21A, passando ai piedi del Piz Sella (da non confondersi con il Sella, quello vero, che domina l’omonimo passo e la strada che sale da Selva).

Gli elicotteri Rai stanno sorvolando la zona da tempo, e ora ne vediamo uno abbassarsi: guardiamo sullo sterrato sottostante e vediamo due persone in mtb che scendono a precipizio, quella davanti ha una divisa rossa. L’elicottero li segue per un pezzo, riproducendo, lungo un invisibile sentiero sospeso, le curve seguite dai due ciclisti, ovvero Christina Kollmann-Forstner, vincitrice della Hero 60km femminile, e l’operatore video.

Rifugio Comici, al cospetto del Sassolungo

Bottger, con numero 14.

Mentre proseguiamo, altre mtb si apprestano ad affrontare la discesa, e quando arriviamo ad incrociare il 526 dobbiamo prestare attenzione. Saliamo i pochi metri che ci portano al rifugio Comici, punto di osservazione straordinario per veder transitare le campionesse e i maschietti che hanno deciso di cimentarsi su questo percorso, che è già ben bastardo di suo.

Wittlin, col numero 98.

In particolare, proprio davanti al rifugio c’è uno strappo che fa rallentare i bikers, creando così le condizioni ideali per fare foto e qualche filmato (e per fare il tifo, ovviamente). E il luogo ideale per l’appostamento diventa l’incrocio del sentiero, dove il tracciato di gara devia per scendere verso Selva.

Ci fermiamo un po’ qui, poi ci rimettiamo in marcia lungo il sentiero 526, con l’orecchio ben teso e l’occhio all’erta, per poterci scansare per tempo all’arrivo di qualche atleta. E, da pseudo ciclista che non può certo definirsi “atleta”, devo dire che fa impressione la reattività con cui affrontano questi strappi, pur con 3200m di dislivello nelle gambe. E capisco ancor di più le parole della padrona di casa, che ci ha raccontato di esser salita a Dantercepies, qualche anno prima, e di essere rimasta impressionata proprio dalla velocità

Noi così non andiamo nemmeno in discesa

Superato il punto critico, dove il sentiero compie frequenti curve e la presenza degli alberi copre la visuale, possiamo camminare più tranquilli, perché lo sguardo corre libero verso lo sterrato che corre a monte della città dei Sassi, e se arriva qualcuno ce ne accorgiamo per tempo.

Camminiamo così sotto un sole caldo, con un clima ottimale per fare una passeggiata, passando ai piedi di un gruppo montuoso (il Sassolungo-Sassopiatto) che per me è il simbolo delle dolomiti al pari del Vajolet: perché è caratteristico, è visibile da molte valli laterali di Fassa e Gardena e, ad ognuna di esse, offre un aspetto diverso del suo “carattere”. Ed è il protagonista indiscusso di una delle immagini icona della Val di Fassa, ovvero la foto del laghetto della casa cantoniera (che, per la cronaca, campeggia nel puzzle appeso nel soggiorno di casa di mia madre).

Gruppo del Sella

Genziana

E così, con il Sassolungo sulla destra e la vista dell’imponente Gruppo del Sella sulla sinistra, arriviamo ad un bivio. Noi prendiamo il sentiero più basso, così non siamo di impiccio ai bikers e ci godiamo il proseguimento della passeggiata. Mentre il figlio comincia a borbottare perché ha fame, saliamo leggermente su un agevole sentiero che attraversa il pascolo fino a raggiungere una recinzione. La passiamo, e proseguiamo lungo un sentiero che si fa via via più stretto.

Arriviamo all’inizio della Città dei Sassi, ovvero un’area caratterizzata dalla presenza di massi erratici… che hanno errato ben poco, essendo caduti dalle sovrastanti pareti del Sassolungo. Sono di dimensioni molto varie, alcuni sono sufficientemente alti da poter essere usati come palestra di roccia, e proteggono il suolo a sufficienza da consentire la crescita ad alcune conifere.

A questo punto cedo, ed “esco” il panino che mi ero portata da casa. Il pargolo infatti si è fatto un po’ troppo lagnoso, e ormai la promessa di un piatto di pasta al rifugio non è sufficiente a tenerlo buono. Facciamo quindi un pre-pranzo vista Sella, e tutte le volte che lo guardo penso a quanto siamo piccoli noi rispetto alla natura, alla sua forza, perché ce ne vuole, di forza, per sollevare di 3000m un atollo corallino di milioni di anni fa…

Gruppo Sassolungo-Sassopiatto dalla Città dei Sassi

Le vette del parco Puez-Odle dalla Città dei Sassi

Proseguiamo facendo lo slalom fra i macigni e sbuchiamo in prossimità del Rifugio Passo Sella. Questo, più che un rifugio di montagna, sembra un locale trendy per la borghesia milanese, quindi impongo all’erede di andare a mangiare al baretto sull’altro lato della statale. Qui però scopro che il menù offre panini, salamelle e cose decisamente strong per i nostri stomaci, e non c’è la pasta, quindi ritorniamo sui nostri passi e ci sediamo al rifugio. Devo dire che la mia scelta si è rilevata ottima, ho preso una crema di patate e rafano con la menta, mentre per la pasta al ragù del figlio non c’è nemmeno da chiedere, vista la velocità con cui è sparita dal piatto.

La Marmolada fa capolino dietro la cresta erbosa

Le Torri del Sella e il Sass Pordoi

Ci riavviamo sulla strada del ritorno, mentre mandiamo un messaggio al “nostro” alle prese con le salite (e le discese) del Sellaronda. Chissà dove caspita è? Sarà riuscito a passare in tempo dai vari cancelli? Se non si è ancora fatto vivo, il Campolongo lo ha passato, magari è ad Arabba….

Rododendri

Ci riportiamo lungo il tracciato di gara, e ora chi passa lo fa in modo decisamente meno…ehm… “baldanzoso”. Gente di tutte le età, di tutti i sessi, di tutte le “forme”. Ci fermiamo a fare un po’ di tifo, e arriva un signore che tira sui 60.

Bravo! Forza che fra poco è tutta discesa!

Eh, quando non ce n’è più, non ce n’è più….

Guardi, noi stiamo aspettando il mio compagno, che arriverà fra un’ora, non meno…

Ecco, il tempo stimato da me si è poi rivelato un po’ troppo ottimistico, ma qui ci arriviamo dopo…

Gente strana…

Torniamo così al Comici, e ci prepariamo ad aspettare, dandoci come tempo limite le 16.30 (la cabinovia chiude alle 17.30), nel frattempo ci dissetiamo, ci lustriamo gli occhi guardando le vette circostanti, vediamo gruppi in supporto di amici e parenti scrutare l’orizzonte alla ricerca di una mtb arancione, di una divisa rossa… e guardiamo incuriositi i personaggi pittoreschi che si aggirano in prossimità del bar. Il tutto con un clima gradevolissimo, trovare qui 22° alle quattro del pomeriggio, a metà giugno, non è che capita proprio tutti i giorni.

Aspetta che ti aspetta, mentre le facce che transitano davanti al Comici sono sempre più stravolte e si rischia qualche tamponamento fra chi si sforza di farla in sella e chi proprio non ce la fa, e in salita scende e spinge la bici, cominciamo a raccattare zaini e cappellino. Si, insomma, non proprio: il cappellino della Hero di Ettore non si trova.

Ma dove lo hai lasciato?

Boh?

‘nnamo bene!!! Torna indietro e fai il giro al contrario!

Fortunatamente una signora ci sente brontolare e viene in nostro soccorso, e il cappello lo recuperiamo. Manca solo il capofamiglia. E arriva un sms

Sella!!!

Ok, è ancora vivo, ma noi dobbiamo scendere, altrimenti ci tocca la pista da sci a piedi. Ci rimettiamo in marcia, e, sulla salita verso la stazione di monte, incrociamo un ragazzo in mtb, munito di protezioni alle ginocchia. Ecco, questo biker mettiamolo da parte (questa citazione la possono capire solo i fans i Carlo Lucarelli) e andiamo avanti. Saliamo in cabina e, mentre chiacchieriamo, osserviamo gli ultimi a lanciarsi col parapendio e sbirciamo sul sottostante percorso di freeride, arriviamo in paese. Ci dirigiamo verso la piazza, e incontriamo, tra gli altri ciclisti, un ragazzo in mtb munito di protezioni alle ginocchia.

…Ettore, guarda che quel ragazzo lo abbiamo incrociato sul sentiero!!! E’ arrivato prima di noi!

E, mentre ci avviciniamo all’arrivo, comincia ad arrivarci la voce dello speaker che pronuncia il nome degli eroi che tagliano il traguardo. E, per un attimo, mi sembra di sentire il nome del “nostro”. Poco dopo mi trovo una chiamata persa. Ci troviamo al lavaggio bici. Seduto per terra ci aspetta un rottame d’uomo, ma pur sempre #hero!!!

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